Francesca Neri: “La malattia mi ha tolto tre anni. Ho pensato al suicidio, senza Claudio non c’è l’avrei fatta”. L’attrice moglie di Claudio Amendola racconta il suo dramma privato che le ha portato via tre anni di vita in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Lei ha una malattia cronica che le procura grandi dolori, la cistite interstiziale.
«È durata tre anni la fase acuta, non ne sono fuori, non si guarisce: impari a gestirla e a non provocarla in modo che non sia invalidante. I primi due anni, io che non credo ai social, sono stata in una chat di donne che soffrono questa patologia. Un po’ come gli alcolisti anonimi? Sì — sorride — esatto».
Francesca Neri: “La malattia mi ha tolto tre anni, senza Claudio non c’è l’avrei fatta”
È stato difficile starle accanto?
«È stato impossibile. Volevo essere lasciata sola. Dovevo proteggere Claudio e Rocco, mio figlio, altrimenti non ce l’avrei fatta nemmeno io, che sono il capofamiglia che si occupa di tutto. Di fatto sono stata via per tre anni, però c’ero, ero lì in casa con loro, ed è la cosa più terribile. Ho accarezzato l’idea del suicidio. Ho passato mesi a giocare a burraco online di notte. Il mio lockdown è durato tre anni.
E quando è arrivato per tutti, con la pandemia, sono stata meglio perché condividevo la situazione degli altri. Claudio è il mio opposto, eppure eccoci ancora qui, sono stata sedotta dalla sua parte femminile nascosta. Voleva una storia, gli dissi di andare a vedere Le onde del destino di Lars von Trier. Bess, la protagonista, non è pazza, è soltanto nata nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata, come me. Ne rimasi sconvolta. Claudio mi disse: non ci ho capito niente.
Ci siamo conosciuti in Amarsi un po’ di Vanzina, la mia prima volta come comparsa, lui protagonista. Stiamo insieme da venticinque anni, se non avessi avuto questa complicità e quest’affetto non ce l’avrei fatta. Rocco era intorno ai diciotto anni, faceva affidamento sul padre ed è stato il mio grande cruccio. Il dolore più grande è stato per mio figlio, il libro l’ho scritto per lui».
[…] Dopo che lei era andata da mille medici…
«Urologia, Agopuntura, ayurveda, nutropuntura, ozonoterapia. Fino al luminare che mi proponeva un massaggio intravaginale. Ma che mi faccio penetrare da uno sconosciuto?».
[…] Quando ha cominciato a stare meglio?
«Ho trovato un equilibrio, devo imparare a difenderlo. Ho cominciato a privarmi di cose che potevano scatenare una reazione. L’aria condizionata, il caldo, certi cibi. La vescica è una parete e se viene lesionata si creano ferite interiori. Le conosco bene, le ho anche nell’anima».
[…] L’analisi l’ha aiutata?
«Certo. L’ho fatta per venticinque anni, è un lusso, c’è una fase in cui ti rendi conto dei tuoi limiti. La prima volta ero una bambina, mi mandarono i miei quando dissi, senza avere alcuna idea del mio futuro: “Da grande troverò l’infinito”. Oggi ho una profonda conoscenza di me. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, che non è interessato al lavoro che faccio e conosce il mio inconscio meglio di me e degli analisti, le emozioni passano da lì».
Francesca Neri: “La malattia mi ha tolto tre anni”
[…] Cosa le manca della Francesca di prima?
«Mi manca la parte ludica, il travestimento che è giocare alle bambole. Mi manca la creatività. Prima era tutto un andare, esserci, apparire, sentirsi vista, riconosciuta. Poi c’è il lato negativo. Malgrado le copertine e il mio viso nelle sale di mezza Italia, rimanevo sempre io, con le mie fragilità. Di quel periodo folle ricordo, a un evento, la colla rimasta attaccata agli orecchini di Bulgari. Ero guardata a vista dai bodyguard, chissà, magari pensavano che me li sarei portati a casa».
[…] Come ha reagito il mondo del cinema, un ambiente così conformista e cinico, alla sua malattia e al suo addio al cinema?
«Ha detto bene, è proprio così. Da una parte c’era incredulità. Le attrici mi chiedevano, ma come hai fatto a staccare? Altri dicevano che ero talmente drogata che non mi reggevo in piedi. I miei amici non fanno parte del cinema. Ma ricordo Massimo Troisi, un poeta della vita e dell’amore che ho riconosciuto simile a me. E Pupi Avati che mi descrisse in poche parole: “Il suo sguardo raro, profondo, di chi conosce la vita. Infatti nel suo sorriso c’è sempre anche il pianto”.
Per ricaricare le pile sto per conto mio. Non sono debole, sono fragile, incapace di farmi scivolare le cose, penso troppo, aborro la mediazione. Ma so amare, condividere. Chi non mi conosce dice che sono stravagante, altezzosa, depressa. Io diffido di chi non è stato almeno una volta depresso».
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