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Spettacolo

Giuliano Sangiorgi: “Covid? Paura e tristezza, soprattutto per un aspetto. Via da Parma? Faceva troppo freddo”

Giuliano Sangiorgi: “Covid? Paura e tristezza, soprattutto per un aspetto. Via da Parma? Faceva troppo freddo”. Il cantautore salentino fondatore dei Negramaro parla a cuore aperto  in una intervista a Huffington post Italia. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Cosa le dà la scrittura di un libro rispetto a quella di una canzone?

“Non avere un confine, non avere un limite che non sia né il minutaggio né la durata mi permette di raccontare più dettagli. Amo i dettagli quando racconto le storie. Le canzoni raccontano alcuni momenti, sono delle istantanee precise di momenti magari fugaci, come è successo per questo nuovo romanzo. La canzone “Amore che torni” l’ho scritta a New York nel 2017 e negli stessi giorni avevo iniziato a scrivere le prime venti pagine del romanzo (dove, tra l’altro, la canzone c’è, ndr). Non è una casualità. Canzone e romanzo sono nati nello stesso giorno: a volte le canzoni sono perfette anche nella loro durata, sono storie incredibili che possono attraversare tempi e spazi. Con il libro ho sentito la possibilità di raccontare di più rispetto alla canzone, riusciva a portarla avanti e ad avanzare i confini della storia. Con la scrittura è come se mi liberassi totalmente di qualsiasi schema. Sia nel primo che in questo libro non ho nessun vincolo se non quello di poter seguire e inseguire i miei personaggi”. 

[…] contatto che c’era e che oggi, visto il periodo, è cambiato, in alcuni casi completamente annullato.

“Il desiderio di un contatto non appartiene solo a questo momento incredibile, ma è un qualcosa che appartiene al nostro tempo. Da un lato, dal punto evolutivo-umano, è affascinante vivere in quest’era digitale, dall’altro, però, la stessa ci ha messi davvero distanti gli uni dagli dagli altri. Abbiamo tutti bisogno di un contatto, di istanti di fisicità che quello stesso termine contiene. Con titoli simili, per l’album e per il libro, ho voluto recuperare quella fisicità che in questi ultimi anni sentivo destinata ad altri pensieri e rimembranze. Il tempo di un lento, lo sconvolgimento e l’epoca che sconvolgeva la vita. Lo trovo meraviglioso. Quando scrivo, ci metto dentro tutta la sostanza della vita che vivo. Racconto con intensità quello che ho vissuto o a cui ho assistito come spettatore. C’è in me la voglia di sentirmi e far sentire chi ascolta o legge al centro di una storia vera”. 

Album e libro non li ha iniziati a scrivere durante il lockdown, ma li ha completati in quel periodo: come lo ha vissuto?

“È stato un periodo molto lungo, ho avuto paure enormi nei confronti delle nostre vite, dei figli, degli affetti e degli amati. La paura è stata tanta e ancora oggi sto e stiamo cercando di superarla. Tra le cose più tristi, c’è il fatto che l’Italia ha perso tantissimi nonni, una grande fetta di saggi, dei punti di riferimento. Ho pensato a chi non poteva stare insieme e a chi doveva far fingere di stare bene. Il vaccino sta risolvendo molto, ma non bisogna mai abbassare la guardia”. 

Cerchiamo di pensare positivo restando negativi (al Covid): tra le cose belle? 

“La cosa più bella che mi è capitata durante il lockdown è aver avuto conferma di aver scelto la persona giusta da avere accanto e io di esserlo per lei – Ilaria – e per la meravigliosa bambina che abbiamo insieme, Stella, la nostra forza, il nostro tutto”. 

Venti anni fa iniziava con i Negramaro la vostra grande avventura e arrivavate al successo mantenuto grazie e soprattutto alla vostra autenticità.

 “La fortuna è stata di essere partiti dall’ambiente universitario, insieme, e di aver continuato, sempre insieme, il nostro percorso. Veniamo da una terra stupenda che è il Salento che in quegli anni, però, era decisamente più autentica. Oggi lo è ancora, ma è stata presa d’assalto. Noi volevamo essere ‘altro’, un genere musicale diverso dalla pizzica. Eravamo un’altra roba, ma abbiamo scelto appositamente quel nome per portare avanti e far conoscere le nostre origini. Dopo il grande concerto a San Siro, il primo, siamo tornati dentro il furgone e sentire voci amiche ci ha aiutato molto. La parola detta in dialetto ti riportava subito a sporcare le ali di terra, così come lo stare assieme a chi la storia l’aveva generata con te. È fondamentale ricordarsi da dove si proviene. Più profonde sono le radici, più non le vedi e non le ostenti, ma le senti. Quelle radici ci hanno aiutato e se stiamo facendo ancora questo dopo venti anni, lo dimostrano come lo dimostra l’aver voluto fare sempre una musica vera che raccontasse la vita vera. Se fossi stato da solo, sarei impazzito o forse, sarei diventato più stronzo di come sono (ride, ndr). Tra di noi abbiamo un giudizio e commento di quello che facciamo, le canzoni si fanno sempre sentire prima alla band”. 

Per diversi anni avete vissuto in una comune generando fantasie di ogni tipo.

“Sì, quella grande casa era nelle campagne vicino Parma e lì abbiamo vissuto per otto anni tutti insieme con le nostre compagne. Quando tutto è esploso, abbiamo fatto tantissimi concerti e avevamo bisogno di stare in un posto del genere, meno lontano come può essere invece la Puglia. Se fossimo rimasti a Lecce, avremmo detto ancora più ‘no’. Mauro Pagani veniva a trovarci sempre dicendoci che quello era il sogno che avrebbe voluto realizzare con De André. Gli piaceva venire a suonare e mangiare con noi. Dopo “Casa 69”, il disco-omaggio a quella casa, fatto in Canada con il produttore dei Placebo, e dopo tutto quel freddo preso lì, siamo tornati a Parma, a maggio, trovando ancora freddo. Cosa fare? Abbiamo chiuso definitivamente con quel posto e, grazie a possibilità diverse, abbiamo presa una casa simile ma in Salento”. 

Alla sua band ha dedicato il suo libro, oltre che ai suoi affetti, in particolare a suo padre che – scrive – “non resta mai indietro”. Chi ripara i viventi?

“Scrivendo questo libro, come detto, ho iniziato da figlio e finito da padre, ma me ne sono reso conto solo dopo. Mi sono accorto di quanto abbia esorcizzato tutto grazie a questa fortuna che ho di scrivermi addosso. Mi sono anche accorto che ho cambiato delle posizioni nei confronti di stati d’animo importanti nei confronti dei quali mi sentivo un supereroe, tipo la solitudine che descrivo nella terza parte del romanzo”[…].

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