Attacchi di panico, cosa sono e come superarli
Il Panico, un nemico “familiare”.
Avete mai pensato all’attacco di panico come un ospite gradito anziché un ‘invadente e pericoloso killer’?
Definizione bizzarra qualcuno potrebbe pensare… considerati i sintomi funesti attribuiti ad esso dal senso comune: tachicardia, sudorazione improvvisa, tremori, affanno, respiro corto, diarrea, sensazione di soffocamento e una profonda angoscia, paura …di morire. Tuttavia, in questo articolo, tenteremo di fare un po’ di chiarezza rispetto al significato sotteso alla sintomatologia, nell’ottica dell’imprescindibile connubio mente/corpo e nell’ambito della teoria psicoanalitica, cara alla mia formazione.
Partiamo da qui. Nel 1926, Sigmund Freud scrive “Inibizione, sintomo e angoscia” nel quale specifica come dietro il sentimento d’angoscia si celi un conflitto inconscio (dunque non accessibile alla coscienza), un passato represso che ‘preme’ nel presente attraverso il sintomo specifico della paura. È certo, invero, che ogni individuo finisce col preoccuparsi e con l’interpretare il significato più evidente dell’attacco di panico perché nell’immediatezza dell’evento egli si percepisce impotente rispetto a ciò che gli accade, paralizzato, e sempre più insicuro.
Cos’è un sintomo?
È l’espressione di uno stato patologico, di sofferenza, avvertito soggettivamente da una persona. Non necessariamente è visibile agli occhi di un altro (di qui la distinzione con ‘segno’). In quanto soggettivo, il sintomo è una modalità di espressione del soggetto di ‘ciò che non va’ che viene in qualche modo ‘preferita’ ad altre, e si caratterizza dunque, come una modalità di comunicazione specifica di quell’individuo. Freud lo definì una “formazione di compromesso”: ciò che non è riuscito ad esprimersi in passato attraverso la parola trova nel presente un compromesso, ‘un nuovo vestito’ con il quale presentarsi. L’attacco di panico si caratterizza come un insieme di sintomi e segni, vale a dire che vi è un contenuto emotivo angoscioso che è percepito solo dal soggetto (soggettivo) che ha radici profonde ed una serie di segni ultraevidenti che sono la manifestazione esteriore di queste emozioni. Eppure durante un attacco, il soggetto in preda al panico si sofferma puntualmente soltanto sull’aspetto corporeo dell’esperienza emotiva, riconoscendo ad esso un univoco significato: “sto per morire”.
Perché? Perché alla base dell’attacco di panico risiede l’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, una sorta di analfabetismo emozionale strutturatosi nel corso della vita del soggetto e all’interno del suo contesto familiare (verosimilmente refrattario al riconoscimento di specifiche emozioni) che gli fa vivere l’esperienza emozionale slegata nelle sue componenti.
Allora la ricerca di senso (“perché mi succede?”) viaggia in direzione di ‘qualche problema di tipo biologico da indagare’ che ha a che fare piuttosto con la pressione arteriosa, con il cuore, con il sangue… insomma con qualcosa esterno a lui. Niente di più falso! Ciò che il soggetto tenta di sfuggire, allontanandosi da situazioni potenzialmente ansiogene, dai luoghi teatro degli accaduti, dalle persone coinvolte nelle precedenti esperienze mediante strategie di evitamento, non sono esterni a lui ma lo riguardano direttamente, sono contenuti a lui familiari, personali, che non riesce ad integrare e di cui non ha consapevolezza. Sensazioni, dunque, fortissime ma insensate nel loro insieme, poiché misconosciute.
La letteratura psicoanalitica rispetto alle osservazioni cliniche di pazienti con crisi di panico evidenzia che questi hanno sentimenti aggressivi di cui generalmente non sono consapevoli e che anzi, il più delle volte, ‘capovolgono’ in sentimenti nobili pur di difendere un’immagine e proteggersi dall’angoscia, dal timore di lasciarsi andare all’aggressività (in questo modo temuta ed evitata). Tutto farina del proprio sacco, dunque!
La psicoterapia, in questi casi, mira all’integrazione dell’esperienza emotiva affinché il paziente possa percepire l’esperienza emotiva per intero e non slegata nelle sue parti come le tessere di un mosaico. Riuscire a dare un nome alle emozioni esperite e descrivere le sensazioni corporee ad esse collegate risulterà un traguardo ambito e possibile. Allo stesso tempo, la comprensione di un significato psicologico dell’attacco di panico, connesso a perdite o a separazioni temute, favoriranno nel paziente una visione intrinseca dello stato di sofferenza (che proviene dal suo mondo interno) e non estrinseca, vale a dire, causato da forze esterne a sé che si impongono all’improvviso.
In altre parole, il panico è solo un compromesso con noi stessi ed un segnale di allerta utile a ricordarci che stiamo solo vivendo!
Per chi volesse approfondire:
• DSM5, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, APA.
• Brusch FN, Shear MK, Cooper AM, Shapiro T, Leon AC. “An empirical study of defence mechanism in Panic disorder”, 1995.
• Freud S. “Inibizione, sintomo e angoscia” (1926) OSF Vol. X Torino, Bollati Boringhieri.
Dr.ssa Maria Pirozzi
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