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Coronavirus, il paziente 1: “Pensavano che a Codogno non sarebbe arrivato. Ho lottato per un motivo soprattutto”

Coronavirus, il paziente 1 di Codogno racconta la sua esperienza a Sky TG24

Coronavirus, il paziente 1: “Pensavano che a Codogno non sarebbe arrivato. Ho lottato per un motivo soprattutto”. Mattia Maestri racconta la sua esperienza tra terapie intensive degli ospedali, ai microfoni di Sky TG24. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

“Ho scoperto di essere il paziente 1 solo una volta che ho preso in mano il mio smartphone. È lì che ho capito cosa fosse successo e cosa stesse ancora accadendo. Fino ad allora sapevo solo che ero stato ricoverato per una polmonite. Era ciò che mi avevano detto. Ma confesso che non mi pesa essere chiamato paziente uno”.

Di fatto non sei il paziente 1…
“Sono il paziente che è stato certificato per primo. Non penso proprio di essere il paziente numero 1”.

Ti sei mai chiesto dove ti sei infettato?
“Ho pensato molto dove possa aver preso il virus ma non ho la benché minima idea di questo dove possa essere accaduto. Sia io che mia moglie nelle nostre ricostruzioni non siamo venuti a capo di un possibile punto di inizio. E non c’entra nulla neppure il mio amico tornato dalla Cina”.

Coronavirus, il paziente 1: “Tutto iniziato con la febbre una domenica”

Come comincia la tua storia?
“Una domenica sera mi sentivo un po’ debole e avevo la febbre un po’ alta. Pian piano è aumentata e allora sono andato al pronto soccorso. Le analisi hanno detto che era una lieve polmonite e mi è stato suggerito di curarla a casa, in quanto nei soggetti giovani è una pratica che viene svolta così. Al mio ritorno a casa con antibiotico però la febbre è aumentata e mi sono ripresentato al pronto soccorso. Da lì in poi la febbre è cresciuta ancora fino a quando sono stato portato in terapia intensiva. Ma fino a quel momento nessuno sapeva dirmi nulla. Se penso oggi a un episodio capitato durante il mio secondo ricovero sorrido. Chiedo ad un operatore sanitario se potesse essere un caso di coronavirus e in dialetto mi risponde ‘il coronavirus Cudogn ‘ Ensa’ nianche addu sta’ che significa il coronavirus non sa neanche dove sia di casa Codogno’ e invece siamo stati l’inizio di tutto”.

Ti senti miracolato? Fortunato?
“Sono stato ricoverato per polmonite. Solo quando mi sono svegliato mi hanno raccontato cosa c’era in giro, cosa stava succedendo e neppure nel dettaglio. Quindi la mia guarigione quando mi sono svegliato era esser guarito da una polmonite . Solo dopo ho capito la gravità di quello che stava succedendo intorno a me. E sì, mi sento fortunato”.

Quando hai aperto gli occhi che mondo hai trovato?
“Purtroppo ero molto salvaguardato dall’ospedale ma io non avevo nessun contatto col mondo esterno. Solo gli infermieri, a cui devo molto, mi hanno dato un grande aiuto. Per 3 o 4 giorni non sapevo nulla né della mia famiglia, né di mia moglie, non sapevo niente: ero solo lì a riprendere le forze che avevo perso”.

Coronavirus, il paziente 1: “Per 3 o 4 giorni non sapevo nulla né della mia famiglia, né di mia moglie”

Anche di tuo papà hai saputo dopo?
“Di mio padre non mi hanno detto nulla subito. L’ho saputo mezza giornata prima che se ne andasse. Mio padre è stato ricoverato anche lui in terapia intensiva a Varese e solo dopo aver avuto il telefono, parlando con mia madre, ho saputo che era grave e dopo mezza giornata, il 19 marzo nel giorno della festa del papà lui se n’è andato”.

Tu però avevi un appuntamento a cui non potevi mancare. Doveva nascere Giulia, la tua prima figlia.
“Mi sono addormentato con questo pensiero. E appena prima che mi addormentassero, proprio perché ancora non si sapeva che era Covid, ho avuto la possibilità di incontrare Valentina. Mi ricordo di aver accarezzato il suo pancione e di averle detto che avrei fatto di tutto per tornare. E ce l’ho fatta”.

E sei riuscito anche ad essere presente al parto?
“Giulia è arrivata con anticipo e anche se non ero nel pieno delle mie forze sono riuscito ad assistere al parto e ancora oggi, che sono ancora a riposo, me la godo tutto il giorno”.

È una grazia enorme svegliarsi e potersi godere tutto.
“Penso che sia stato più di un film quello che è successo. La mia malattia, la mia guarigione, il fatto che sia mia madre che mio padre che Valentina si siano ammalati (mia madre e Valentina sono guarite, mio papà non ce l’ha fatta) e poi la nascita di Giulia, tutto concentrato in un mese e mezzo scarso, è una cosa da film, forse anche di più di un film. Però il lieto fine con la nascita di Giulia c’è. E tutto il resto l’ho voluto mettere in secondo piano”.

Coronavirus, il paziente 1: “Per 21 giorni non ho nessun ricordo”

La dottoressa Malara te la ricordi? Che cosa ti ricordi di quelle ore a Codogno?
“Mi ricordo benissimo della dottoressa Malara quando mi ha portato in terapia intensiva. Ricordo che più volte mi ha detto della gravità della mia situazione che peggiorava e ricordo benissimo quando mi ha detto ‘Mattia ti devo addormentare’ . E tutto inizia. E per me finisce per che da lì e per 21 giorni non ho nessun ricordo. Mi sono svegliato a Pavia. Non sapevo di essere lì. Era una delle domande che i dottori mi facevano frequentemente per testare il mio livello di recupero. Mi chiedevano più volte al giorno dove mi trovassi. A me non interessava sapere dove fossi , quello che non riuscivo a capire è perché non andavo a casa , perché non mi veniva detto cosa in realtà stava succedendo”.

Il primo pensiero quando ti sei svegliato?
“Io mi sentivo già bene e quindi il primo pensiero è che volevo andare a casa . Poi quando mi hanno detto  ‘ti dimettiamo’ ho pensato che fosse finita e invece mi dimettavano da un reparto e mi mandavano in un altro reparto”.

37 anni sano in forma, sportivo, ti sentivi invincibile?
“Sì, mi sentivo invincibile, anche perché pratico anche diversi sport, vivo per lo sport. Invece mi sono ammalato di quetsa cosa strana che non sappiamo ancora neppure come curare. Penso dunque che la vita sia davvero imprevedibile e bisogna godersela a volte senza pensare troppo al domani con un po’ di ragionevolezza ma anche senza aspettare troppo nel fare quello che amiamo fare”.

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