Coronavirus, Vespignani, uno dei massimi esperti di epidemiologia computazionale, in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’
Coronavirus, Vespignani: “Vicini a punto di inversione ma bisogna dire agli italiani la verità scomoda…”. Alessandro Vespignani, direttore del «Laboratory for the modeling of biological and Socio-technical Systems», alla Northeastern University di Boston, e uno dei massimi esperti di «epidemiologia computazionale», in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’.
«L’Italia si sta avvicinando a un punto di inversione, ma dobbiamo avere pazienza e usare queste settimane per programmare il futuro che non potrà che essere emergenziale».
In questi giorni l’Italia sembra aver raggiunto il picco dei positivi, ma l’ incremento dei casi continua a restare alto e la discesa non arriva, come era nelle attese…
«Bisogna stare sempre molto attenti a fare questi calcoli. Non dobbiamo seguire i numeri giorno per giorno, ma almeno su base settimanale. Può darsi che il dato sia ancora alto perché ci sono Regioni che stanno facendo più tamponi. È chiaro che occorre pazienza. In ogni caso la curva dell’ Italia è in frenata e sta cominciando la discesa, come si vede dai dati che arrivano dagli ospedali, dove si stanno liberando posti. E questa è la cosa importante».
Ma quando verrà il momento, la discesa verso il livello zero sarà più veloce?
«Dipende da come ci comporteremo tutti quanti. Ho visto immagini di città affollate in questi giorni, magari dove il contagio non si è ancora diffuso. Sbagliato, non è il momento di rilassarsi. Dobbiamo, invece, insistere. Abbiamo davanti l’esempio della Cina. Lì il “lockdown” è durato tre mesi».
Come va usato questo tempo?
«Dobbiamo cominciare a dire agli italiani una verità scomoda. Mi rendo conto che è difficile farlo con un Paese praticamente in ginocchio, ma non possiamo illuderci di tornare alla completa normalità a giugno o a luglio. Queste sono le settimane in cui l’ Italia deve dotarsi di un’ infrastruttura di controllo che neanche immaginava fosse necessaria quattro settimane fa. Qui l’ esempio è quello della Corea del Sud. Dovremo essere in grado di mantenere le cautele necessarie di distanza sociale, ma soprattutto di tracciare i casi positivi, eseguire i test per isolare le possibili persone infettate. Occorre essere in grado di fare i tamponi porta a porta».
Il coronavirus cambierà la nostra vita come è accaduto, per molti aspetti, dopo gli attentati in America dell’11 settembre?
«Sì, sarà così. Per un lungo periodo, per esempio, viaggiare non sarà più come prima. Dobbiamo mettere in conto che prima di entrare in un altro Stato saremo costretti a fare la quarantena, a fornire determinate garanzie sanitarie e così via».
L’Italia sarà più colpita degli altri Paesi?
«Ho sostenuto da subito che non esisteva un “caso italiano”. Il virus si è diffuso prima in alcuni Paesi e poi in altri anche per ragioni legate al caso. Non so, un viaggiatore arrivato in un posto anziché in un altro. D’altra parte questa epidemia, in generale, ha un tasso di raddoppio del numero dei contagiati ogni 3-4 giorni. E quindi è solo una questione di tempo. Oggi New York si trova nella situazione in cui era l’Italia un paio di settimane fa. Il resto degli Stati Uniti tra un paio di settimane si troverà nella stessa posizione in cui è adesso New York. Ma qui sembra che nessuno voglia imparare qualcosa dall’esperienza degli altri».
Perché in Italia ci sono più vittime? Negli Stati Uniti il tasso di mortalità sembra molto più basso…
«Ci sono diverse ragioni. Innanzitutto è un errore contare i morti in rapporto ai casi positivi. Non è quello il tasso di mortalità reale. Il numero di vittime che vediamo oggi si riferisce a persone che hanno contratto la malattia venti giorni fa. Se vogliamo fare un calcolo indicativo, dovremmo rapportare questo numero alla quota dei contagiati dello stesso periodo, di venti giorni fa appunto. Poi ci sono anche criteri diversi per classificare le cause di morte. Ma, se posso dire, ci sono altri parametri molto importanti. In Italia l’età mediana dei deceduti è 80 anni, mentre quelle delle persone che finiscono in ospedale è di 60. Significa che anche le fasce più giovani della popolazione sono a rischio ricovero».
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