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Coronavirus, Ilaria Capua: “È un fenomeno epocale. Lombardia? I fattori che hanno favorito diffusione…”

Coronavirus, Ilaria Capua parla di fenomeno epocale e indica alcuni fattori come possibili vettori in una intervista pubblicata da Fanpage

Coronavirus, Ilaria Capua: “È un fenomeno epocale. Lombardia? I fattori che hanno favorito diffusione…”. L’ex virologia, oggi direttrice di un centro di studi interdisciplinare in Florida, indica alcuni fattori come possibili vettori in una intervista pubblicata da Fanpage. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

“La pandemia ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali: sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara e questo non significa adottare il modello cinese ma far funzionare più efficacemente il nostro. Il panico sui mercati è stata la logica conseguenza”.

Il problema è la lentezza del nostro sistema?
“Al contrario questa emergenza ha rivelato che è il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità. Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi.

Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena, passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali”.

Insomma le infrastrutture della globalizzazione funzionano come un ripetitore epidemico, un amplificatore di ogni minimo rischio biologico.
“Esattamente. Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita. Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus. La tecnologia è troppo veloce per quello che la biologia è in grado di assorbire”.

Coronavirus, Ilaria Capua: “Lombardia? È urgente porsi una domanda”

A proposito di ripetitori epidemici, qui si pone un interrogativo persino più spinoso: ovvero il ruolo che possono avere avuto le strutture sanitarie nella diffusione del virus.
“Di fronte alla catastrofe attualmente in corso in Lombardia, con i suoi elevatissimi tassi di contagio e di letalità rispetto agli altri focolai, è urgente porsi la domanda. Che cos’è successo a Codogno, a Bergamo, a Brescia? In questa fase possiamo soltanto fare delle ipotesi. Io credo che ci siano dei fattori, che ancora non conosciamo, che possono favorire la diffusione e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere. Esistono esempi precedenti: il virus SARS 1 era circolato attraverso la condotta dell’aria dell’Hotel M a Hong Kong. Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti”.

A Bergamo e Brescia è anche la letalità a sembrare completamente fuori norma.
“Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare. Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche (età e sesso), qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti… Una spiegazione si deve trovare”.

E se così non fosse?
“Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche, persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora. Per quello abbiamo bisogno di capire cosa sta succedendo”.

Coronavirus, Ilaria Capua: “Paura del virus ruolo nella diffusione? È una delle ipotesi”

Lei hai più volte insistito sulla necessità di studiare i rapporti dei patologi sulle cause di decesso. Qui si entra in considerazioni che hanno importanti risvolti politici e geopolitici, ma anche affettivi. Pensiamo al modo differente in cui vengono conteggiati i morti tra Italia e Germania: da una parte ascrivendo alla lista dei caduti da Coronavirus ogni paziente risultato positivo al test indipendentemente da ogni patologia pregressa, dall’altra facendo figurare le altre patologie come causa diretta del decesso. Nel dibattito pubblico italiano sembra quasi che porsi delle questioni metodologiche costituisca una mancanza di rispetto per le vittime.
“C’è sicuramente una strumentalizzazione che rende più difficile affrontare la questione a mente fredda. Ogni morte è una tragedia. Ma noi stiamo cercando di gestire una pandemia, ovvero evitare altre morti, e ogni decesso rappresenta delle informazioni preziose. Quindi sì, distinguere tra morti “da” coronavirus o “in associazione” al coronavirus è necessario. Che possano nascere delle polemiche su questo è molto grave. Noi dobbiamo fare queste distinzioni perché ci aiutano a verificare delle ipotesi. Quello che sta accadendo in Lombardia, ripeto, deve essere chiarito. La questione dei criteri di reporting dei casi è fondamentale: abbiamo bisogno di dati armonizzati a livello nazionale, europeo, mondiale. Altrimenti brancoliamo nel buio”.

Se appare plausibile ritenere che alcuni pazienti abbiano contratto il virus in ospedale, possiamo dire che la paura del virus ha avuto un ruolo nella sua diffusione?
“È una delle ipotesi da prendere in considerazione. Se c’è stata una corsa agli ospedali questa non ha certamente migliorato la situazione. Da tempo con il mio centro di ricerca stiamo proprio lavorando sull’influenza dei media (e nello specifico delle fake news) nella diffusione delle malattie. Ci siamo interessati alla peste suina africana, che se dovesse diffondersi per spillover al circuito industriale sarebbe una catastrofe economica, e abbiamo osservato come il dibattito nei media influenza i comportamenti della popolazione, producendo talvolta degli effetti perversi. Un’epidemia è un fenomeno sociale oltre che biologico e dobbiamo chiederci cosa fanno i media al coronavirus. Per ora sappiamo che producono molti cosiddetti “worried healthy” che assumono comportamenti disfunzionali. Ma nel momento in cui cominciano a emergere fake news sui virus creati in qualche laboratorio militare segreto, come si è visto in rete, si pone ancora un ulteriore problema: quello della delegittimazione degli scienziati visti come untori”.

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