Dolce e Gabbana si raccontano tra vita privata e professionale in una lunga intervista rilasciata ai microfoni di ‘7’ l’inserto de ‘Il Corriere della Sera’
Dolce e Gabbana: “Non bramiamo ricchezze, l’ossessione è un’altra. Cina? Ci ha distrutti, come tornare dalla guerra”. I due stilisti si raccontano in una lunghissima intervista rilasciata ai microfoni di ‘7’, l’inserto de ‘Il Corriere della Sera’.
Stefano Gabbana, 57 anni, e Domenico Dolce, 61. Si sono conosciuti all’inizio degli Anni Ottanta (lavorando insieme nello studio dello stilista Giorgio Correggiari) e poco dopo hanno fondato la loro maison Dolce&Gabbana (foto Ansa)
«Oggi, a 61 anni io e 57 Stefano, ci sentiamo più forti, maturi, completamente focalizzati sul nostro lavoro: entrambi, quando vediamo certe cose – la signora che ricama, ma anche quella che fa a mano le orecchiette, che impasta il pane con il lievito madre -, ci emozioniamo allo stesso modo. Questi sentimenti li proviamo da sempre, ma ora li abbiamo messi davvero a fuoco: abbiamo preso coscienza che la bellezza della manualità, delle cose fatte bene, dell’alto artigianato, è diventata basilare nel nostro modo di vivere, di pensare, di essere. Sono le radici della cultura italiana e sono anche le radici della nostra personalissima cultura», dice Domenico Dolce.
E Stefano Gabbana: «Ci nutriamo delle nostre passioni, del nostro mestiere e anche della nostra libertà: siamo nati liberi, siamo cresciuti liberi e continueremo ad esserlo. Non bramiamo ricchezze, probabilmente perché le abbiamo già. La nostra vera ossessione è cercare di creare bellezza. La nostra forza è essere insieme: abbiamo i tavoli da lavoro uno di fronte all’altro, parliamo, parliamo tanto. Abbiamo un modo di procedere molto narrativo».
Fra le voci in attivo del bilancio personale c’è invece il loro legame, sopravvissuto alla fine del rapporto sentimentale nel 2004 e raccontato per la prima volta proprio sulle pagine di 7, vent’anni fa. Allora, alla domanda “vi siete mai mollati seriamente?”, Dolce rispose: «Neanche un giorno. Noi viviamo 365 giorni all’anno insieme, attaccati…». E Gabbana: «E se non siamo attaccati fisicamente, lo siamo con la testa».
E oggi? Esiste un nome per raccontare il rapporto che c’è fra voi? Non siete più amanti…
Dolce: «Ci manca pure questo. Quello che ci lega è un intreccio indissolubile, una forma di amore, di rispetto, di complicità assoluta. Siamo due entità che si sono trovate unite, come lo yin e lo yang. A volte penso che ci siamo incontrati per un destino divino, un disegno, persino contro le nostre volontà. Ci lega la stessa malattia, fobia, idea fissa di coltivare la bellezza».
Il bilancio dei vostri quarant’anni insieme?
Ancora Dolce: «Alla mia età ho capito due cose: che il tempo mi sfugge (un’esperienza può sembrarmi breve anche se è durata quarant’anni e lunghissima anche se è durata poco, ma l’ho vissuta male) e che i sentimenti sfuggono alla parola, non si lasciano rinchiudere in una definizione. Dire a Stefano “ti amo, ti voglio bene” non rende giustizia al sentimento privato, personale, unico, che ho verso di lui. Tanta gente ama qualcun altro, ma il loro sentimento non è uguale al nostro: il nostro è legato a un’idea particolare della moda, all’emozione che proviamo davanti a un tessuto, un ricamo, un pizzo».
Dolce e Gabbana si raccontano tra vita privata e professionale
«Tutti i sentimenti che proviamo li buttiamo nel nostro lavoro», dice Gabbana.
E Dolce: «Ci chiediamo spesso: che facciamo della nostra vita? Che cosa ci rende felici? Che cosa ci dà la serenità di stare qui in ufficio dalla mattina alla sera? L’età avanza, oggi raccogliamo le esperienze, la maturità, la saggezza, la conoscenza, oggi diamo valore a ciò che conta. Da quando nel 2004 la Borsa ha invaso la moda, siamo stati tentati di vendere, ci hanno sventolato sotto il naso pacchi di soldi che sembravano non finire mai. Ma è questo che ci fa felici? Avere quei soldi, ma perdere la libertà di decidere a livello creativo? Abbiamo visto stilisti geniali vendere e pentirsene sei mesi dopo. La moda è finanza? Io penso di no: con le multinazionali finisce che non crei più».
Mai avuto un blocco creativo, raccontano.
«Errori tanti, blocchi mai». «Domenico la mattina arriva in ufficio con i taccuini pieni dei disegni che ha fatto la sera o la notte, a casa. Io riesco a staccare completamente, lui mai, persino in vacanza entra in crisi da astinenza dal lavoro», dice Gabbana.
E Dolce: «Non è una fatica, mi piace. L’altra sera ero distrutto, poi improvvisamente mi è venuta un’idea e subito ho dovuto schizzarla, per paura di dimenticarmela. Essere stilista per me è avere il “male”, non è una professione, è una vocazione».
Così l’anima dell’azienda, raccontano, sono gli abiti — certo insieme alle borse e alle scarpe — «con l’abito parli, ti relazioni, ti distingui dagli altri, racconti quello che vuoi far sapere di te. Il fatto che in questi anni i grandi gruppi abbiano boicottato gli abiti a favore degli accessori, ha impoverito la storia di tutti noi. Cosa racconteremo ai posteri: che in un determinato periodo storico abbiamo portato in giro quella borsa e non quell’altra? L’abito è cultura, la sua funzione è anche terapeutica: quello che indossi deve sedurti, darti serenità, felicità, sicurezza. Quando l’allora sovrintendente della Scala, Alexander Pereira, ci ha chiesto di fare i costumi per l’opera, gli abbiamo risposto di no perché non ci sentiamo all’altezza: non conosciamo in modo così approfondito la storia e se fai un costume di una certa epoca, devi tagliarlo e cucirlo esattamente come si faceva allora. Siamo ossessionati dai dettagli».
Dolce e Gabbana: “Cina? Ci ha distrutti, come tornare dalla guerra”
Più forti di prima
«La storia va letta a distanza. Devi sederti sulla riva del fiume e aspettare, come dicono gli orientali. Io l’ho imparato dalla vita: l’attesa dà la risposta», dice Dolce.
Sedersi sulla riva del fiume ad aspettare cosa?
«Che la follia di ciò che ci è accaduto in Cina diventi solo un ricordo», risponde.
A un anno e due mesi dai fatti cinesi, gli stilisti raccontano di essere più forti di prima. Dicono che i successi sono graditi – e come potrebbe essere altrimenti – ma raramente sono buoni maestri: ci sono vittorie che si conquistano solo se si è stati capaci di perdere qualche battaglia, cadere e risorgere. La loro battaglia persa si chiama #DGTheGreatShow, l’evento con un migliaio di ospiti organizzato a Shanghai nel novembre 2018.
Un’avventura iniziata con tre brevi video lanciati su Instagram in cui una modella cinese tenta di mangiare alcune specialità gastronomiche italiane con le bacchette, e finita in modo rocambolesco, quasi grottesco: insulti sui social (“razzisti”, “sessisti”, “offendete la Cina”), negozi picchettati, boicottaggio da parte delle piattaforme di e-commerce, che hanno sospeso la vendita dei prodotti della maison italiana, video con le scuse dei due stilisti, annullamento della sfilata, precipitoso rientro a casa.
«È stato come tornare dalla guerra: sconfitti, laceri, pieni di ferite. Ce le siamo bendate e medicate, ci sono voluti mesi per uscirne. Ma siamo positivi, non abbiamo rancori, abbiamo chiesto scusa nella maniera più onesta del mondo. Basta, finita lì. I clienti non li abbiamo mai persi, chi ci conosce non ci ha mai lasciato», dice Dolce. Gabbana: «Tu sei stato più male di me. Sì, ho sbagliato una comunicazione, ma non volevo offendere nessuno, è stato un errore stupido, naïf. Ci hanno accusati di razzismo: io razzista! Mi ci vedi, Domenico, razzista? Se c’è una cosa che non sono è questa. Nella storia e nella cultura degli italiani il razzismo non c’è. C’è l’accoglienza».
Il sogno da realizzare?
Gabbana: «Io voglio poter lavorare fino all’ultimo giorno della mia vita».
Dolce: «A me piace sfilare, condividere».
Gabbana: «Di’ la verità: il tuo sogno è avere i capelli».
Dolce: «Non lo sognavo neppure a vent’anni, figurati oggi. Della testa mi importa poco, sono un passionale, preferisco puntare al cuore».
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