“Io ex killer di mafia, ho ucciso 13 persone ma piango ogni giorno per un delitto”. Il racconto crudo dell’ex omicida della cosca catanese
“Io ex killer di mafia, ho ucciso 13 persone ma piango ogni giorno per un delitto”. «Si chiamava Filippo Parisi e aveva 18 anni. Stava aprendo un panificio quando sono arrivato lì vicino. Ho sparato a uno che dovevo ammazzare, ma un proiettile è rimbalzato e ha colpito lui. Era marzo del 1991, a Catania. Ho pianto tantissimo per quel ragazzo. È uno dei miei rimorsi piu grandi. L’ho pensato ogni santo giorno per anni e ancora adesso, soprattutto di notte, ricordo spesso quella scena. Vedo lo strazio di sua madre che dopo, negli anni del processo, veniva in aula con la fotografia di Filippo sul petto. Mi guardava e io facevo pure lo spaccone. Se ci ripenso. Non avevo ancora capito che cosa fosse il dolore, non avevo ancora imparato a gestire i miei impulsi peggiori, a distinguere il bene dal male. Non so cosa darei per tornare indietro e non essere quello che sono stato […] Il proiettile gli recise l’arteria femorale. Conoscevo infermieri dell’ospedale in cui lo portarono. Cercavo di informarmi sulle sue condizioni, ho sperato inutilmente che se la cavasse. Non avrei mai voluto uccidere un ragazzo innocente, nemmeno allora nonostante fossi quello che ero».
“Io ex killer di mafia, ho ucciso 13 persone”
È la storia di Roberto Cannavò, 53 anni, ex killer di Catania, raccontata ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’. «Ho commesso tredici omicidi. Lo so: se uno mi conosce e mi parla adesso tutto questo sembra pazzesco. Ma è andata così e il passato purtroppo non si può cambiare. Ero uno che aveva come punti di riferimento miti negativi, assassini, gente che mi faceva sentire grande e potente. Ho cominciato con qualche furto, uno dietro l’altro. Poi rapine. Diventare una pedina della criminalità organizzata, è stato un attimo. Io sono stato un affiliato, ho fatto il giuramento a Cosa nostra».
La mafia e Roberto si incontrano per la prima volta quando lui non era ancora maggiorenne. Ma fu un tragico incontro. «Credo sia stato l’8 marzo del 1984, quando avevo 17 anni e sognavo ancora di avere un’officina meccanica tutta mia. Quel giorno mio padre fu ucciso, a 38 anni, per un errore di persona. I sicari volevano ammazzare un tizio che abitava venti metri più in là e che è stato ucciso otto giorni dopo. Mio padre si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato con una A112, come l’altro tizio. Mio fratellino di 9 anni ha visto tutto. I carabinieri sono venuti in officina, mi hanno portato sul luogo del delitto e hanno alzato il lenzuolo. Ero scioccato […] Ho cominciato a fare danni. Dopo pochi mesi ho abbandonato l’officina e i pochi furtarelli che avevo fatto fino a quel momento — e che nella mia testa dovevano servire a comprare l’attrezzatura meccanica e vivere poi onestamente — sono diventati altro e di più. Il fatto di mio padre mi ha dato l’alibi per diventare peggiore».
Da ladro a uomo d’onore, il giuramento con Cosa nostra
Ad aprile del 1991 il giuramento con cosa nostra. «Sono diventato un uomo d’onore, come usano dire i mafiosi. Io avevo il mio uomo di riferimento. Uno che mi aveva seguito nel percorso criminale. Con Cosa nostra succede così: c’è qualcuno che è già uomo d’onore e che ti osserva attentamente. Lui sa se sei educato, ubriacone, umile, ubbidiente, sa come ti comporti con le donne, quanto sangue freddo hai. Se vai bene, se lo convinci, allora lui ti introduce, ti presenta agli altri, ti propone come uomo d’onore. Una sera mi disse: domani vestiti pulito che andiamo a fare una cena importante. Per me lui era un punto di riferimento, ma non sapevo che fosse un uomo d’onore. Sono andato a quella cena, c’erano altri che come me erano lì per giurare. Quella sera sono tornato a casa in pieno delirio di onnipotenza. Se ci ripenso oggi mi vengono i brividi. Dentro mi sentivo grande e invece di grande avevo soltanto la violenza. A quella tavola c’erano uomini che con un cenno della testa decidevano il tuo destino».
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