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Spettacolo

Luisa Ranieri si racconta: “Da ragazza ero bacchettona. Sono cresciuta facendo analisi per mio padre…”

Luisa Ranieri si racconta, l’attrice napoletana parla della sua vita privata e professionale in una intervista rilasciata a Vanity Fair

Luisa Ranieri si racconta: “Da ragazza ero bacchettona. Sono cresciuta facendo analisi per mio padre…”. L’attrice napoletana parla della sua vita privata e professionale in una intervista rilasciata ai microfoni della rivista Vanity Fair.

Siamo qui.
«Da ragazza ero molto timida e non mi sarei mai aspettata di diventare attrice».

Come ha superato la timidezza?
«Non l’ho superata, ho imparato a conviverci. Perdermi nelle storie che racconto è una maniera di divertirmi e di essere leggera. Da un certo punto di vista, anche se sembra una contraddizione in termini, per non concentrarmi su di me fino a dimenticarmi quasi della mia presenza, non esisteva al mondo un mestiere più adatto del mio».

Come lo affronta?
«Con una leggerezza che quando ero giovane non avevo idea di dove abitasse. Sa qual è la verità?».

Qual è?
«Che la mia timidezza rappresentava anche la cifra di quanto stessi bene con me. Da un certo punto di vista mi sono sempre bastata. Non sono mai stata una da grandi comitive, da feste faraoniche, da casino in compagnia al solo scopo di tirare l’alba. La mia dimensione ideale è il silenzio».

Da adolescenti, se non è scelto, il silenzio può essere faticoso.
«Sempre meno che doversi divertire per forza soltanto per sentirsi giovani o fichi a ogni costo. I miei coetanei che si sballavano in discoteca, a partire dai miei amici, non li ho mai capiti. Io andavo, ballavo come una pazza per un’ora e poi m’addormivo».

Prego?
«Mi veniva un gran sonno, sbadigliavo, desideravo solo tornare in camera mia. Non capivo perché bisognasse allungare il brodo. Gli altri magari tiravano a far mattina con un gin, una canna o una pasticca e io, lucidissima, tornavo a casa ore prima oppure mi assopivo e poi, nel cuore della notte, mi toccava anche riaccompagnarli. I miei amici mi consideravano una giovane vecchia».

Luisa Ranieri si racconta a Vanity Fair

E lo era?
«Ma io in realtà ero felice e sentivo che non dovevo dimostrare niente a nessuno. Il mio lato più leggero ha sempre convissuto con quello serio. Da ragazza, a pensarci bene, sono sempre stata molto seria: quasi bacchettona. A quell’epoca sognavo di studiare legge, fare il magistrato o l’avvocato penalista, pensavo che frequentare le aule di tribunale sarebbe stato il mio destino. Alla facoltà di Giurisprudenza, in effetti, mi iscrissi».

Nella vita, poi, ha difeso altre scelte.
«Bisogna partire da lontano. A 13 anni, in gita scolastica, avevo visto Roma per la prima volta innamorandomene perdutamente. Maestosa, splendente, con improvvise aperture panoramiche che per me, cresciuta a Napoli con le sue strade strette, erano una novità assoluta. Mi dissi: “Questa è la città in cui mi piacerebbe vivere”. Seguire un corso di recitazione e fare teatro proprio lì, inizialmente, fu un modo per tensere aperta la porta di quel sogno».

Quale era il piano originario della sua vita?
«Lavorare nell’azienda di famiglia. Stare sotto il neon, in ufficio, ogni santo giorno. Non faceva per me, non ce l’avrei mai fatta. Volevo la mia indipendenza».

In che famiglia è cresciuta?
«In una famiglia matriarcale, da matriarcato antico, come quasi tutte quelle in cui a far finta di dirigere le operazioni è l’uomo, ma a tenere il reale comando è sempre la donna. Sono cresciuta in mezzo alle donne. All’allegria. Al disequilibrio giocoso. Alle sei sorelle di mia madre che aveva lasciato mio padre, con grande scandalo, a fine anni ’70. Papà si era trasferito al Nord non riuscendo ad accettare fino in fondo la fine della storia. Se ne andò presto, quando avevo solo ventiquattro anni».

Che rapporto avevate?
«Un rapporto complesso, rarefatto, distante. Da bambina non ti fai troppe domande e se te le poni, magari non sono quelle giuste. Mi sono accorta di quanto mi sia mancato – e mi è mancato tantissimo – soltanto dopo, quando ti restano solo i ricordi ed è troppo tardi per recuperare».

Come si è aiutata?
«Facendo analisi, per molti anni. Ricostruendo i percorsi, comprendendo che siamo certe persone anche perché ognuno di noi si porta dietro un passato che ha inciso. L’analisi mi ha dato una mano a volermi bene, ad accettarmi, ad avere un rapporto migliore con me e con gli altri».

 

 

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