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Spettacolo

Bud Spencer, la moglie: “Cercai di farlo cambiare, per fortuna non ci riuscii. Non voleva fare l’attore…”

Bud Spencer, la moglie parla dell’ attore in un’ intervista rilasciata ai microfoni de ‘La Repubblica’

Bud Spencer, la moglie: “Cercai di farlo cambiare, per fortuna non ci riuscii. Non voleva fare l’attore…”. Maria Vasaturo, moglie per 56 anni di Carlo Pedersoli alias Bud Spencer, parla ai microfoni de ‘La Repubblica’

Un matrimonio durato cinquantasei anni. Dei predestinati.
«Direi proprio di no. Non è stato un amore a prima vista. Lui entrò a un certo punto nel giro dei miei amici. Ci vedevamo al Pincio, e nessuno di noi aveva la macchina. Nessuno tranne lui, che le vendeva, le macchine americane. Forse avevo voglia di innamorami, di lui non so, era un tombeur des femmes, era bello, tanti anni di sport agonistico gli avevano regalato un fisico pazzesco, faceva una vita interessante. Fu un fidanzamento anomalo, lui stava sempre via. E insomma ce ne abbiamo messo di tempo, anche perché mio padre era sempre in guardia. Alla fine nel ’60 ci siamo sposati, e ci sarà stata una ragione se è durata tanto e abbiamo avuto tre figli».

Il vostro segreto?
«In un matrimonio ci devono essere soprattutto due cose: rispetto e tenerezza. E noi ci siamo rispettati, con le nostre storture. Io ho tentato di cambiarlo. Gli dissi che lo facevo per il suo bene. E lui: “Per quel che tu credi sia il mio bene”. Così mi placai e per fortuna non sono riuscita a cambiarlo. Lui rimase sognatore, io realista, io attaccata alla logica, lui manco p’ a capa».

È mai stata gelosa? È vero che come diceva lui “con le attrici non sono mai andato nemmeno a prendere un caffè”?
«Questo non glielo so dire (sorride). Lo diceva lui».

Si aspettava che potesse diventare una star del cinema?
«No, e lui non ci pensava proprio. Quando tutto cominciò, con un socio milanese aveva appena messo su una società di pubblicità, e con le sue manie di grandezza aveva speso tutto per farsi un ufficio grandioso. Ma le cose non quagliavano”.

Poi la svolta.
“Un giorno mi chiama la moglie del regista Giuseppe Colizzi e mi chiede: “Ma suo marito è sempre cosi grosso?”. “Se è per questo è ancora più grosso, visto quello che si mangia tutto il giorno”, le risposi. Insomma gli propongono un film, lui non lo voleva fare. Gli dissi: “Scusa Carlo, cosa hai da perdere? È giugno, in estate in Italia non si conclude niente”. Insomma lo fece: “Dio perdona io no!”, il primo film in coppia con Terence Hill, fu un successo strepitoso».

E inaspettato
«Pensi che per farlo Colizzi si era impegnato i gioielli della moglie. Nessuno ci credeva. E invece».

Una carriera pazzesca. Ma davvero suo padre, Giuseppe Amato, non ci mise lo zampino?
«Stiamo parlando del ’67: mio padre era morto tre anni prima E poi figurarsi, papà non avrebbe mai concepito che Carlo facesse l’ attore. Allora il cinema italiano contava nel mondo, non era come oggi alla mercé di americani e francesi. Per merito del neorealismo, e anche della commedia italiana. Papà di quella stagione era stato un protagonista, le sue opere parlano da sole. Ed è curioso e anche triste che oggi sia cosi poco ricordato».

Era la stagione dei grandi produttori
«Certo. Ponti, De Laurentiis, grandi imprenditori. Papà invece fu un innovatore. E non solo perché fu lui a credere in La dolce vita quando Fellini glielo propose. Ha fatto fare il regista a De Sica, recitare insieme i fratelli De Filippo, ha prodotto Don Camillo. E ancora “Domani è troppo tardi”, ‘Umberto D’, ha fatto fare a Rossellini ‘Francesco giullare di Dio’. E riuscito a far interpretare a Totò la sua unica parte tragica in ‘Yvonne la nuit’. Pensavo che sarebbe bastato per ricordarlo, ma non è così. Oggi mi è venuta voglia di parlarne, di fare qualcosa, forse un docufilm…».

La consolerà però che di Bud Spencer si ricordino tutti
«È incredibile cosa è stato capace di fare. I fan mi scrivono cose che mi commuovono. E la mostra che il 13 settembre apre a Palazzo Reale di Napoli, la sua Napoli, nasce dall’ idea di raccogliere anche le testimonianze di affetto che ci arrivano da tutto il mondo: foto, biglietti. Ci sono statue di Carlo sparse in non so quante città. Si sarebbe stupito di certe santificazioni, non si è mai sentito un mito, anche se credeva molto in quello che faceva per il pubblico”.

Ancora sul successo.
“Penso che la chiave di tutto sia forse nell’ aver fondato un genere, anche grazie a registi come Colizzi e Marco Barboni che con ‘Lo chiamavano Trinità’, inventò un western del tutto nuovo. Fino ad allora il western, quello americano, ma anche quello splendido di Leone, Corbucci e Castellani, produceva personaggi e storie con molta violenza. Barboni la smitizzò. Quando Carlo e Mario menavano forte, con colpi che ripetevano quaranta, cinquanta volte, quelli si rialzavano e magari Bud e Terence gli davano una pacca sulle spalle».

Tre anni dopo la morte cosa le manca di più di lui?
«Sa che non lo so? Io ero abituata alle sue assenze. Era un uomo molto libero, andava, veniva. Ho convissuto con la sua assenza. E quindi non mi manca. Aspetto che come al solito mi chiami». 

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