Erri De Luca si racconta in una lunga intervista rilasciata ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’.
Lo scrittore napoletano Erri De Luca ha rilasciato una intervista al Corriere della Sera nell’ambito del Premio Goliarda Sapienza, il concorso letterario nato nel 2011 e rivolto ai detenuti.
Leggere è libertà.
«Una persona in prigione, quando si mette un libro davanti agli occhi, cancella le sbarre e le porte blindate, tutta la cella intorno, riesce a far superare gli ostacoli, a far “evadere”, una parola altrimenti impronunciabile in prigione perché a senso unico e senza virgolette. La lettura in carcere è uno strumento che riesce a sospendere — per un momento — la pena, e far raccontare e scrivere, ai più “coraggiosi”, anche dei torti commessi o subiti, delle proprie vicende personali e anche delle ingiustizie».
La pazienza e il coraggio (oltre le sbarre), l’unico concorso in Italia dedicato alla popolazione detenuta che affianca ai finalisti grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor, alla quale lo scrittore napoletano partecipa ormai da diversi anni.
«Apprezzo la possibilità di provare vicinanza veloce e profonda per uomini di pazienza e di coraggio, virtù scarse all’esterno. In carcere scrivere è una forma di evasione legale. Per un prigioniero riguarda le lettere, che dalla prigionia e dai campi di concentramento (per i quali consiglia la lettura di I racconti della Kolimà di Varlan Shalamov che «trasmettono tenacia») sono stati una potente forma letteraria del Novecento. Si può scrivere per dare uno sfogo alla pressione interna, ma nei racconti scritti nelle varie edizioni del premio ho potuto leggere di più, la tensione verso una forma narrativa, perché il premio ha stimolato il racconto di storie vere ed estreme, che parlano della nostra narrativa e nella nostra vita. I detenuti scrivono di loro, della loro esperienza, di quel che hanno conosciuto. Per questo hanno una presa diretta sul lettore molto più forte, almeno per me lettore, di quella di chi inventa storie, elaborando personaggi e trame».
Queste iniziative fanno circolare nuovo ossigeno dentro le mura.
«Per molti detenuti la scrittura è anche un atto di isolamento. Molti di quelli conosciuti rinunciavano all’aria e al cortile per poter restare soli a scrivere. Certo è un atto rischioso, specie dentro una comunità forzata perché taglia la comunicazione. Un atto individuale che può essere malinteso dagli altri compagni di pena, perché il carcere non è una scuola di scrittura. Ma la scrittura ha il compito di non lasciare alla pena l’ultima parola. Mentre le donne in prigione cercano di conservare gesti domestici, curano la cella, si danno una mano e si isolano meno degli uomini. Il carcere è una segregazione, e a lungo è stata una segregazione da tutto il resto della società. Attività come questo premio hanno reso più porose le mura della prigione, più permeabili a quello che accade fuori, facendo conoscere quello che succede dentro».
Uno dei fini del carcere dovrebbe essere quello rieducativo […] Come adempiere a questa missione?
«In carcere l’attività lavorativa dovrebbe essere consentita a chiunque lo desideri, come anche un accesso normale agli studi. Sono beni preziosi che infondono dignità e responsabilità in chi sconta una pena».
E rispetto alle nuove generazioni e al rispetto che hanno per l’altro, inteso anche come povero, detenuto, migrante in cerca di una nuova vita.
«Credo nella gioventù del mondo: dove essa brulica, s’infervora, dilaga. Da noi i giovani sono demograficamente in inferiorità numerica e psicologica nei confronti di adulti e anziani. Credo in una gioventù Europea».
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