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Alessandra Mussolini: “Mi capitò una vicenda traumatica con un professor ebreo. Il cognome? Adesso è più leggero…”

Alessandra Mussolini a tutto tondo in unauna intervista rilasciata a Luca Telese e pubblicata su “la Verità”:

«Noi Mussolini siamo marziani rispetto al cognome. Avendo quello più “pesante” della storia italiana, ci siamo dovuti esercitare nel farlo diventare “leggero”».
 
Ed è possibile?
«Il peso dei cognomi, dei padri, dei figli, è a geometria variabile».
 
Prediamo Di Maio.
«Guarda come cambia il rapporto tra un padre e un figlio: dieci anni fa Luigi era solo “il figlio di suo padre”, anonimo e leggerissimo. La settimana scorsa Antonio era diventato il padre del vicepremier. E quel cognome era diventato pesantissimo per entrambi».
 
E il tuo per te oggi come è?
«Ne ero e ne sono orgogliosa. È stato un macigno in alcuni momenti, un peso leggerissimo in altri. E ho deciso di darlo ai miei figli».
 
Anche in maniera ufficiale?
«Sono dei Mussolini-Fiorani, e so che mi ringrazieranno per quello che hanno imparato quando hanno dovuto portare il peso».
 
Proviamo a rileggere la tua biografia?
«Io, ovviamente non avevo un problema con la mia identità, al contrario di tanti figli in conflitto con la loro eredità. Tuttavia…».
 
Cosa?
«All’università avrei voluto fare filosofia».
 
Se avessi proseguito, forse, nel 1993 non avremmo avuto una candidata simbolo del Msi a Napoli ma una studiosa di Hegel?
«So che ci provai e dovetti scappare. Altro mondo, metà anni Ottanta a Roma, facoltà molto di sinistra, Lettere e filosofia, e un rischio fisico concreto. Mettere il mio cognome su un foglio di carta bianco, per iscrivermi pubblicamente a un esame universitario. Un rito pubblico per cui non esisteva privacy».
 
Cosa accadeva dopo?
«Era come convocare un sit in di protesta contro me stessa. L’ ho fatto una o due volte, poi ho capito che dovevo cambiare facoltà».
 
Disastro.
«Affatto. Mi sono iscritta a Medicina. E ho trovato un ambiente tutto diverso… E sono diventata più forte di prima».
 
E oggi?
«Sono ancora felicemente medico. Mi sono laureata con ottimi voti. Ho anche la specializzazione in medicina e chirurgia!».
 
E a scuola?
«Ero stata in una privata, abbastanza protetta. Alla maturità, quando avevo annunciato la scelta delle mie materie, un professore mi disse: “Con quel cognome vuoi pure portare filosofia?”».
 
E a medicina tutto bene?
«Un professore mi disse. “Qui il tema è studiare o non studiare: del suo cognome non ci importa nulla”. Mi capitò una vicenda traumatica con il professor Tagliacozzo, ebreo. Luminare di fama, un professore severissimo di anatomia. Tutti mi avevano consigliato: cambia canale, cioè passa all’altro professore».
 
E tu?
«Cambiare solo per il mio cognome? Sorrisi e dissi: “Mai”».
 
E all’esame?
«Massacrata. Ricordo ancora l’interrogazione sull’ anatomia della regione pelvico-anale. Mi scrisse: “Respinto” sul libretto, cosa rara, e lo buttò per terra. Una umiliazione. Gridava: “Voi dovete essere degni di diventare medici!”».
 
Un peso terribile.
«No. Perché io effettivamente non ero preparata. Non mi piansi addosso, cambiai canale e dopo dieci giorni, con un altro professore, presi 30 e lode».
 
Anche tuo padre aveva dovuto confrontarsi con il suo cognome.
«Papà era appassionato di jazz. Ma era – in quegli anni – la “musica negra”, proibita. Mi raccontò che non poteva suonarla a casa, perché sarebbe stata una sfida».
 
E cosa fece?
«Una soluzione all’italiana. Andava a suonare sul tetto di Villa Torlonia. La notizia si diffuse in famiglia. Mio padre fu convocato da nonno Benito, che gli disse: “Gira voce che… È vero?”. Papà era preoccupato, ma alla fine nonno concluse così: “Se fosse vero che suoni jazz sul tetto, non scendere”».
 
Chi era peggio trovarsi di fronte: lui o donna Rachele?
«Mio padre non aveva dubbi. Prendeva brutti voti e mi diceva: “Se devo farmi firmare una pagella, meglio affrontare il Duce che mia madre”. E infatti le firmava tutte lui».
 
Mi immagino che sollievo per gli insegnanti… E fare l’attrice con il tuo cognome?
«In Italia l’attrice se ti chiamavi Mussolini non la potevi fare. Ero io che ero una matta. Guardo sempre Leo Gassman a X Factor, che trovo bravissimo. Però ogni volta che mettono in mezzo la sua famiglia, soffro. Metti pure che io potevo entrare davvero nel Guinness».
 
In che senso?
«In quel mondo ero due volte nipote. Di mio nonno e di mia zia Sophia Loren. Era più facile che restassi a casa e mi chiudessi dentro. Ogni provino era come sentire di essere marchiata su due spalle».
 
Esempio?
«Mi ritrovai ad avere la fortuna di recitare una parte in teatro con Eduardo De Filippo. Un turco napoletano. Lui era già senatore eletto nelle fila del Pci. Qualcuno potrebbe pensare che avesse delle riserve su di me. Lo ricordo attentissimo al provino, silenzioso, poi severissimo quando prese la parola. Quasi preoccupato».
 
Parlaste di fascismo?
«Macché. Mi disse: “Tu ti devi assolutamente correggere. Hai l’accento puteolano!”».
 
Sfumature della lingua…
«Scherzi? Il due, per esempio: nel primo caso è “O roie”. Nel secondo “O doie”. Edoardo poteva sorvolare sul cognome ma non sull’esattezza della lingua teatrale».
 
Hai imparato da lui?
«Tutto: diventai Giulianella, la figlia di Felice Sosciammocca. E c’era in lui un rigore meritocratico per cui ogni sera, se funzionavi, ti aumentava le battute. Ho imparato con lui tante piccole tecniche silenziose che uso ancora, in politica».
 
Mancata filosofa, mancata chirurgo, ma volevi fare l’attrice.
«No. Ho avuto tre figli e sono stata rapita dalla politica nel 1992. Il resto è storia nota».
 
In politica il cognome ti ha aiutato. Ammettilo.
«Nessuno ricorda che Fini mi mise in lista al numero 31».
 
Perché sapeva che ce la facevi?
«No, perché doveva far eleggere Abbatangelo. Per fortuna lo superai, di 57.000 voti. E vinsi pure a Bologna».
 
Grazie al cognome?
«Non voglio fare la vittimella ma ho dovuto lottare nei partiti. Meglio con Berlusconi che con Fini».
 
Perché?
«Berlusconi è l’unico che non mi ha mai raccontato balle. Alle europee mi chiamò e mi disse: “Alessandra, so che in Senato stai bene, ma ho bisogno del tuo nome per trainare la lista”. Così fu».
 
E alla fine hai lasciato il Senato per Strasburgo.
«Ero candidata al penultimo posto e ho preso 82.000 voti».
 
Di Maio figlio è responsabile per Di Maio padre?
«No. Non come figlio, almeno. Non si può chiedere a un figlio di denunciare il padre, a meno che non sia un mafioso. Mica puoi rispondere di tua moglie o di tuo marito in tutto e per tutto. Altrimenti finiamo al cannibalismo…».
 
Sento che c’è un però.
«Se di tuo padre sei braccio destro, o compagno di avventura, diventi suo socio!».
 
Il familismo amorale è un piaga italiana?
«Non lo credo. Da quando sono in Europa mi sono convinta che all’estero fanno di tutto, ma non esce fuori. Ma meglio una informazione vigile che addormentata. Meglio aver saputo del padre della Boschi o di Renzi. I cittadini giudicano».
 
E tuo padre con te?
«Era umorista, ironico, autoironico. Non aveva la pesantezza retorica di altri parenti, anche rispetto al regime».
 
Si diceva che Romano fosse meno politico.
«Non era così. Adorava suo padre, ed è riuscito a spiegarmi che c’erano due Mussolini: uno per noi, uno per il resto del mondo. L’ho ritrovato quando ho iniziato a fare politica: si interessava, mi consigliava. Mi ha aiutato a vincere la paura».
 
Non ci credo che fossi timida!
«Scherzi? Non sei mai pronto. Tutti siamo dilettanti. All’inizio volevo parlare sempre per prima, in pubblico. E sparire».
 
Cosa non sopporti?
«Uno come Friedman che dice: “Non ti ascolto perché non parlo con una Mussolini”».
 
E hai voluto che i tuoi figli assumessero questo cognome?
«Quando hai una storia che suscita reazioni, conoscere meglio chi è stronzo è un vantaggio».
 
Avranno la tua cazzimma?
«Se la faranno venire. Io ogni volta che vedo la foto di piazzale Loreto soffro. Nelle pieghe del naso insanguinato di un cadavere trovo la mia storia. Mentre so che altri, in quello stesso corpo, vedono un dittatore».
 
Su questo piano nessun marziano può sorvolare.
«No. Ma per fortuna i marziani sono intelligenti».
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