Crollo ponte Morandi, l’agghiacciante quadro subito dopo la tragedia:
Nella vicenda relativa al crollo del ponte Morandi a Genova, c’è la storia della rimozione delle vittime, sicuramente l’aspetto più triste. Sulle pagine de ‘La Verità’, il collega Giacomo Amadori ricostruisce le scene agghiaccianti che si sono trovati di fronte i primi soccorritori, emersi dalle carte depositate dai magistrati della Procura di Genova sui 43 morti e 16 feriti:
“L’8 settembre il sostituto procuratore, Massimo Terrile, ha compilato il terribile elenco delle 59 vittime, accostando ad esse i nomi dei «prossimi congiunti», madri, padri, coniugi, figli, nonni, ma in qualche caso anche zii, nipoti, cugini e cognati. La documentazione depositata dai magistrati ci rispedisce come a bordo di una macchina del tempo ai minuti immediatamente successivi al crollo.
Un sovrintendente di polizia, Marco C., descrive le «prime fasi emergenziali» di quel giorno e la telefonata ricevuta da una collega, Roberta C., alla quale un cittadino disperato «riferiva che il ponte Morandi era crollato e che molti veicoli e molte persone erano precipitate nel letto del fiume Polcevera sottostante». Vista la gravità dell’allarme e non conoscendo le cause del crollo la polizia decide di inviare alcune volanti ai caselli autostradali cittadini per filtrare l’afflusso dei veicoli. Alla centrale iniziano a giungere altre notizie e si apprende che ci sono «numerosi veicoli coinvolti nel greto del fiume, molti dei quali con all’interno feriti». La zona della tragedia è colpita da una pioggia battente e da raffiche di vento, intorno si avverte un forte odore di gas. Alcuni mezzi sono volati sui binari della ferrovia e per questo viene allertata la centrale operativa della Polfer per fare immediatamente sospendere il traffico ferroviario. Nelle teste dei soccorritori inizia a delinearsi uno scenario da The day after.
La scena iniziale sembra quella di un film di genere catastrofico: una grandissima porzione di autostrada è infilzata nel terreno e ha l’aspetto pericolante. I primi soccorritori non si fidano ad avvicinarsi agli automezzi che si trovano lì sotto: da un furgone bianco si scorgono solo due mani appoggiate a un volante. Per la concitazione e la paura «di un eventuale altro crollo» inizialmente non vengono recuperati i documenti dei feriti, né annotate le targhe dei veicoli coinvolti.
L’autista di un tir rosso esce dall’abitacolo con le proprie gambe, sembra un fantasma. Un equipaggio di poliziotti abbandona la volante e accorre verso il fiume. Gli agenti si trovano di fronte auto distrutte e capovolte e un tir bianco con «la cabina schiacciata al suolo». Si guardano intorno per riuscire a scendere nel torrente e trovano una scaletta in corda posizionata probabilmente da «due sudamericani con gli ombrelli che cercavano di rendersi disponibili ai soccorsi». Gli uomini vagano tra le macchine dove vedono solo cadaveri sino a quando odono grida di dolore e cercano di individuarne la provenienza. Ma non è facile a causa della pioggia e del vento. «Durante queste fasi giunge una richiesta di soccorso in lingua straniera».
Arriva dal tir bianco capovolto. L’autista è cosciente, ma «ovviamente sconvolto e stordito dall’impatto, con il volto coperto completamente di sangue e le gambe tumefatte dallo sterzo». L’uomo dice di chiamarsi Martin e di essere originario della Repubblica Ceca. I poliziotti decidono di «intervenire in suo soccorso “sorreggendolo” per non farlo stare a testa in giù per troppo tempo». I dolori di Martin Kucera, 46 anni, sembrano alleviarsi grazie a quella manovra e allora gli operatori decidono di sganciare la cintura di sicurezza. Quindi iniziano a parlargli per non farlo assopire, «dato che con il trascorrere degli interminabili minuti lo stesso chiudeva gli occhi e in qualche frangente sembrava che stesse per perdere conoscenza».
Anche il commissario capo Filippo C. racconta quello che ha visto. Per esempio verso mezzogiorno del 14 agosto si trova di fronte Lucian Gotthesan, 46enne rumeno, che vaga semi incosciente vicino a un capannone pericolante da cui fuoriesce un pungente odore di gas. A causa della forte pioggia, nel greto del Polcevera scorre «un forte flusso d’acqua». Da un’Alfa Romeo viene estratto il cadavere di una donna cilena, Leyla Nora Rivera Castillo. Viaggiava con due uomini che non vengono subito identificati.
Da un’Audi A3 viene tirato fuori un uomo sulla quarantina. In una borsa c’è una tessera di Fincantieri, l’azienda che dovrebbe ricostruire il ponte, con il nome della vittima: Francesco Bello. Nataliya Yelina, ucraina di 43 anni, è «incastrata sotto una porzione del ponte a un’altezza considerevole». È trasportata via con l’elicottero mentre il greto si riempie di «salme preventivamente avvolte in lenzuoli bianchi, all’interno di sacchi», in modo da rimanere «nascoste alla vista dei numerosi presenti». Un telefonino nero squilla accanto a un cadavere, mentre un altro, grigio, appartiene a Rita Giancristofaro, che piange, ma è viva. Grazie alla rubrica del suo smartphone i soccorritori trovano il numero della madre e dopo nove ore di ansia avvertono la signora Anna «delle buone condizioni della figlia e del rinvenimento del suo cellulare».
Nella carcassa di un’ autovettura ci sono due giovani di età compresa tra i 20 e i 25 anni. Questo il racconto di uno dei soccorritori: «Giunto in prossimità dell’automobile, potevo notare che il ragazzo non dava segni di vita, mentre la ragazza al suo fianco urlava per le vistosissime ferite agli arti inferiori. La donna era incastrata tra i rottami con la caviglia sinistra girata in modo innaturale sotto la pedaliera, con le ossa a vista e fuoriuscite dalle carni». I suoi salvatori cercano di tenerla cosciente rivolgendole più volte la parola, mentre cercano di liberarla.
Claudia Possetti, quarantasettenne di Pinerolo, è morta dentro a una Golf, insieme con i suoi due ragazzi, Manuele di 16 anni e Camilla di 12. Nell’auto c’era anche il loro cagnolino. È spirato con i suoi padroncini. La mamma aveva con sé un borsellino fucsia con 200 euro in contanti per quella loro giornata di vacanza. I suoi ragazzi avevano due portafogli della stessa griffe alla moda. In quello di Camilla c’era un ricordo della sua breve esistenza, una banconota da 1 dollaro. Delle loro vite non resta altro, se non piccole schegge inanimate: alcuni mazzi di chiavi, un telecomando del cancello, due cellulari uguali, uno nero e uno color oro, forse di Camilla.
Nel greto sono sparsi altre piccole testimonianze di questa Spoon river genovese: una borsa frigo arancione, un telo da mare dello stesso colore, un romanzo di Herman Hesse, un pettine azzurro, un blocchetto per gli appunti nero. Ci sono anche 520 euro in banconote, tutte impregnate di gasolio. Poco più in là, c’è un piccolo marsupio marrone con 136,24 euro in monetine. Chi li raccoglie si chiede chi li abbia messi da parte e perché. Il ponte ha inghiottito la risposta insieme a 43 vite umane”.
Aggiungi Commento