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Gianni Amelio: “Mio figlio adottato? La sua carriera una soddisfazione enorme. Perché dissi no a Banderas. E quell’audio di Troisi…”

Gianni Amelio: “Mio figlio adottato? La sua carriera una soddisfazione enorme. Perché dissi no a Banderas. E quell’audio di Troisi…”. Gianni Amelio sul figlio adottato in Albania, il “no” a Banderas, l’audio di Massino Troisi, il nuovo film e non solo, il regista calabrese, 80 anni, si racconta a tutto tondo in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

[…] da che nocciolo emotivo nasce il film.
«Dall’attualità. Io, se penso a Gaza, all’Ucraina, al Mediterraneo dove muoiono i fuggiaschi, non riesco a pensare che non mi riguarda, io mi sento in guerra».

[…] Ne ha mai parlato con qualche collega che sui film di guerra ha fatto fortuna?
«Mi è capitato solo con uno, grandissimo: Samuel Fuller. E ammise che era d’accordo».

Gianni Amelio: “Campo di battaglia un film sulla guerra”

In «Campo di battaglia», ci sono due medici, uno, interpretato da Gabriel Montesi, rispedisce i soldati al fronte pure malati o mutilati perché devono servire la patria; l’altro, Alessandro Borghi, li aiuta a prendere infezioni o arriva a mutilarli, pur di farli tornare a casa. Ognuno, a suo modo, ha ragione.
«Uno segue la logica del dovere, l’idea che alla guerra ci si sottrae solo da vigliacchi; l’altro capisce che in guerra si va a morte sicura e, pur rischiando, cerca di salvare vite anche togliendo a quelle vite qualcosa. Tant’è che un soldato non accetta, dice: perché dovrei vivere da sciancato? I due dottori non sono catalogabili in buoni e cattivi perché è cattiva la guerra e la sua assurdità comporta che nessuno può avere ragione».

[…] Suo padre era emigrato in Argentina e lei lo conoscerà solo a 14 anni. Non le è pesato crescere senza?
«I padri possono pesare con l’assenza, ma sono dolori quando pesano con la presenza».

Meglio che non ci sia stato?
«Sono cresciuto libero, ho avuto una madre splendida, tosta di carattere, che si era sposata sedicenne, spartana, non la chioccia che mi voleva sotto la gonna. Mi spingeva ad andar via, come la mamma di Aldo Braibanti nel Signore delle Formiche. Invece mio padre è tornato da sconfitto e io, liceale, lo intimidivo. Non trovavamo nulla da dirci, ma gli ho voluto bene».

Lei come aveva fatto a iscriversi al liceo e poi a Filosofia venendo da tanta miseria?
«Lavorando. Davo lezioni private. Ho fatto le medie la mattina dando lezioni il pomeriggio ai bimbi delle elementari. Al liceo, davo lezioni di latino a quelli delle medie. Nonna diceva: fai le magistrali così fai subito il maestro, ma io ero già ambizioso da piccolo e avevo voglia di istruirmi tanto».

Qual era l’ambizione?
«Noi ragazzi andavamo a scuola sognando non di diventare ricchi, ma di essere contenti. La contentezza è una parola bella. C’era un’energia felice, che abbiamo perduto col benessere, con la voglia di avere la villa, la vacanza, la barca. Che senso ha il benessere se non si ha il limite dei propri bisogni?».

A vent’anni, arrivò a Roma. Come se la cavò?
«Cogliendo un’occasione che avevo cercato. Andai a intervistare il regista Vittorio De Seta per una rivista studentesca e gli chiesi di prendermi come assistente volontario. Però non ero stupido, impreparato, presuntuoso. Ho fatto una gavetta che poteva essere contro le ambizioni di un quasi laureato in Filosofia che crede di non poter fare lo schiavo in un western all’italiana. Io lo facevo e mi divertivo pure. E De Seta, vedendo che lavoravo sul serio, mi ha pagato: avevo lasciato un posto di maestro e, per restare a Roma, avrei anche svaligiato una banca, ma non è servito perché lui mi pagò. Ho detto no a un solo film perché non mi pagavano».

Gianni Amelio: “Mio figlio adottato? La sua carriera una soddisfazione enorme”

[…] A Claude Lelouche e a un film da Oscar. Che ricorda invece della sua nomination per «Porte Aperte»?
«Non sono andato. I biglietti li ho regalati. Uno, perché sono snob. Due, perché non era quello che volevo. Si diceva che il film potesse vincere, ma non mi sentivo di girare l’America per pubblicizzarlo. Pensavo: poi che faccio? Vinco e faccio un film enorme, costoso? Non ne avevo tanta voglia».

[…] Molti dicono che nei suoi film c’è sempre anche la «ricerca del padre».
«Credo che ci sia invece la ricerca di umanità anche in chi non ci è padre: nei miei film, ci sono tanti padri putativi e non è un caso che io, nella vita, abbia adottato un figlio».

Luan, figlio di pastori in Albania, che oggi è un bravissimo direttore della fotografia, scelto anche da Paolo Sorrentino.
«Stavo girando Lamerica, faceva la comparsa. In Albania, c’era una fame che nemmeno nel nostro dopoguerra. Il padre, malato, venne a dirmi: fino a oggi è stato figlio mio, da domani, sarà figlio tuo. Pochi mesi dopo, a Roma, Luan ha incontrato sua moglie formando una coppia indissolubile e dandomi poi tre nipoti. La sua carriera è una soddisfazione enorme, doppia, perché ha fatto tutto da solo, imparando tanto da Luca Bigazzi e dal belga Yves Cape. Oggi ci sono difficoltà odiose per chi vuole adottare e, intanto, i bambini muoiono infelici. Ma se due uomini o due donne scelgono di adottare un figlio è perché gli vogliono bene. I diritti civili vivono una crisi grave, sono spesso calpestati».

Una volta ha detto «io che ho amato Togliatti, io che ero diessino già allora… io che ho sempre votato per il Pci, voterò per tutte le sue diramazioni». Lo pensa ancora?
«Non ho cambiato idea».

Gianni Amelio: “Film su Craxi? Racconto la verità”

Ha fatto un film su Bettino Craxi, raccontando, parole sue, «l’agonia di un leader che va alla morte coltivando rimpianti e rancori fino all’autodistruzione». Eppure, ha avuto la fiducia della vedova che l’ha lasciata girare in casa loro. Come ha fatto?
«Dicendo la verità. Volevo raccontare gli ultimi mesi di vita, non l’uomo politico. Di Craxi mi aveva attratto che si fosse battuto per salvare Aldo Moro e io sono per la vita che va sempre salvata. Il principio di Hammamet è: quanto è importante la vita per chi la sta perdendo».

[…] Perché lei disse no ad Antonio Banderas?
«Si propose per Il ladro di bambini, ma parlava spagnolo e si girava in presa diretta. E chiese una cifra spropositata. Doveva farlo invece Massimo Troisi, ma aveva già un altro set. Conservo l’audio che mi inviò quando vide il film. Diceva: sono contento di non aver fatto questo film, perché è grande assai, enorme, stupendo e, se ci fossi stato io, avrebbero detto che era pure merito mio, invece, è tutto merito tuo».

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