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Da Terence Trent D’Arby a Sananda Maitreya: “Ho lasciato la vetta per un motivo. Nel business della musica è tutto falso”

Da Terence Trent D’Arby a Sananda Maitreya: “Ho lasciato la vetta per un motivo. Nel business della musica è tutto falso. Da Terence Trent D’Arby a Sananda Maitreya, il cantautore statunitense, 62 anni, nel 1995 ha cambiato nome, lasciato l’America e cominciato un’altra vita da musicista indipendente, libero, e felice. Ne parla in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’ della quale ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Era sulla vetta, lei con Prince e George Michael.
«Sono salito in cima alla montagna, ho guardato il panorama che si vede da lassù. Sostanzialmente è tutto falso, devi fidarti solo delle cose che hanno un valore per te. Se per restare lì devi essere freddo, cattivo, devi fare contenti quelli che comandano, devi subire il loro controllo e le loro bugie, vale davvero la pena di stare lì, in cima a quella montagna? Certo c‘è un prezzo da pagare, il prezzo che tutti paghiamo per essere quelli che siamo. Poi, possiamo discutere: sono sceso dalla montagna o mi hanno spinto giù? Il Buddha dice: salta, e non cadrai di sotto. Prince mi diceva: nel business ti accettano solo se obbedisci, e se obbedisci non sei più tu».

Eravate amici.
«Prince e io eravamo molto amici, quello che mi ha insegnato è che c’è vita fuori dallo studio di registrazione, tante esperienze da vivere. Nei miei dischi ci sono tante canzoni (come nell’ultimo, il 13°, appena uscito: The Pegasus Project: Pegasus & the Swan, 41 canzoni, ndr) perché non voglio morire con un archivio pieno di inediti, con gli eredi che litigano, come è successo a lui. La parte più divertente, per un artista, è fare il disco. Lì hai il controllo su tutto. Poi, quel controllo, lo perdi, progressivamente. È come spostarsi da un clima caldo, confortevole, al gelo polare».

Da Terence Trent D’Arby a Sananda Maitreya: “Ho lasciato la vetta per un motivo”

Tanta musica che c’è in giro al momento è fatta di formule.
«La mia formula è: non avere formule. Il business della musica tende a trasformare i purosangue in animali da soma. Vediamo però se riescono a trasformare gli animali da soma in purosangue…».

Dall’America all’Europa, e infine a Milano.
«Come diceva il mio eroe, John Lennon, la vita è quel che succede quando sei impegnato a fare altre cose. La mia hometown? Mia moglie è nata qui a Milano, i miei figli sono nati qui, qui c’è cultura e bellezza. Sono felice? Chiedilo a questa donna (indica la moglie, Francesca, architetto, che sorride, ndr), chiedilo ai miei figli».

La musica le ha dato tanto ma qualcosa le ha tolto.
«No, il business mi ha tolto qualcosa. Soldi, tra le altre cose, ma come mi ha detto una volta Keith Richards, un altro mio eroe, quello è il prezzo della tua educazione, agli Stones il manager Allen Klein sfilò un mare di soldi: welcome to the music business. Ho scelto di restituire alla musica qualcosa — poco, necessariamente — di tutto quello che la musica ha dato a me. Dare un contributo — grande, piccolo, secondo le proprie possibilità — alla forma d’arte che hai scelto, quello mi preme. La musica mi ha aiutato a capire la vita».

[…] Non ha avuto paura di allontanarsi dalla fabbrica della fama e dei soldi?
«Prima di diventare padre non conoscevo la paura — ho capito cosa fosse solo quando ho provato la paura di perdere ciò che significa tutto per me».

Da Terence Trent D’Arby a Sananda Maitreya: “Nel business della musica è tutto falso”

Cosa ha capito dei potenti? Ne ha frequentati parecchi.
«A Londra, tanti anni fa, ma proprio tanti, avevo un’amica che faceva la dominatrix. Una ragazza bellissima, che aveva clienti tanto importanti che, mi diceva, “se facessi i loro nomi scomparirei nel nulla, mi farebbero sparire entro un’ora”. Eppure quegli uomini potentissimi sentivano il bisogno di essere dominati, in un ambiente controllato. Gli serviva quella finzione: credere di non avere potere, che quella ragazza avesse un potere assoluto su di loro. La forma più forte di dominio è il dominio che hanno su di noi le cose nelle quali scegliamo di credere. Sono cresciuto in chiesa, la musica religiosa t’insegna a essere un servitore della musica. E se servi la musica, la musica si prenderà cura di te. Credo nella musica».

E in Dio? Negli dei dell’Olimpo?
«Per me il divino è femminile. Credo nella magia. La magia è lo Steinway, la Fender Stratocaster, mia moglie e i miei figli».

Un consiglio a un giovane artista, alla luce della costosa educazione alla quale si è sottoposto?
«Se convinci la gente che la tua musica l’hai scritta e suonata perché nasce dalla tua sincera necessità di dire quella cosa, un pubblico lo troverai. Suoni bene, male, è un altro discorso. Ma se sei sincero la gente lo percepisce. Nessuno sente il bisogno di ascoltare musica prefabbricata da un’azienda. Crea le tue regole. Abbi l’audacia di credere che la tua voce merita di essere ascoltata. Se la musica ce l’hai dentro, la musica troverà il modo di manifestarsi».

Il concerto più bello?
«In casa. Tanti anni fa a Londra: chiamo la mia ex, sento il pianoforte in sottofondo, chiedo che succede. Lei mi fa: niente, ci sono qui George Harrison e Don Henley, c’è un po’ di casino. Metto giù, corro lì, meno male che abitavamo vicini».

 

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