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Spettacolo

Maurizio Lastrico: “Mio padre sparito e poi ricomparso, al suo funerale una tragedia. Mia mamma invece…”

Maurizio Lastrico: “Mio padre sparito e poi ricomparso, al suo funerale una tragedia. Mia mamma invece…”. Maurizio Lastrico sul padre, la madre e non solo, l’attore e comico genovese, 44 anni, si racconta ripercorrendo le tappe della sua vita in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

[…] Le affidano sempre ruoli positivi, di grande umanità.
“Non sempre. Fra poco andrà in onda Sei donne (la serie di Rai 1 con Maya Sansa e Isabella Ferrari, ndr), dove incarnerò un personaggio estremamente drammatico, con problemi di droga, sessualità, crimine… “Umanità” non significa solo essere dolci o teneri o simpatici: significa anche trovare l’umanità nelle figure all’apparenza cattive, bidimensionali”.

A proposito di “bidimensionalità”… Attore e comico. Un’anima divisa in due?
“No, sono parti che si integrano con affetto, una alimenta l’altra. Ben venga la visibilità di attore per portare la gente a teatro. Certo, se fossi proprio costretto a scegliere, rinuncerei alla televisione. È il live che mi dà di più, il cabaret, l’umorismo. Da piccolo imitavo il mio vicino di casa, si moriva dal ridere”.

Maurizio Lastrico: “Mio padre sparito e poi ricomparso, al suo funerale una tragedia”

[…] Lei quando ha capito di essere portato per lo spettacolo?
“A 14-15 anni ero in una band e le scemate che sparavo fra le canzoni erano più apprezzate di quando cantavo. Ai concertini gli spettatori aumentavano e sentivo che sul palco si creava qualcosa di particolare, di forte. Pensavo: “Ok, possiedi un dono, ma vai in un centro di formazione per far sì che non sia effimero ed estemporaneo e che tu possa avere gli strumenti tecnici per governarlo, indirizzarlo, vederlo maturare””.

Accipicchia che atteggiamento da secchione. Andava bene a scuola?
“Per carità, secchione! Temevo questa etichetta, essendo abituato a prendere il massimo dei voti. Cercavo furbescamente la quadra: essere il casinista di classe però senza farmi mettere una nota, far divertire i compagni (il 10 e lode per me era quello) senza venire rimproverato. Sia sul set sia nella vita, essere sgridato è una delle mie fobie”.

Si sarà chiesto come mai.
“Di sicuro c’entrano le figure genitoriali. Ho una mamma premurosa che – pure se scrivevo la letterina di Natale – mi riteneva Dario Fo. Mio padre invece era superbacchettone, trovava il mio interesse attoriale e comico un’idiozia, una roba che non portava a niente. E mi sgridava in maniera pesante. Abbiamo avuto un rapporto complesso: quando i miei si sono separati, papà aveva chiesto l’affidamento e, non avendolo ottenuto, è sparito. Ha tentato un riavvicinamento ma poi è mancato, ironia della sorte proprio pochi mesi prima che io debuttassi a Zelig. Mio zio mi comunicò la scomparsa, mi dette il nome della chiesa… sbagliato; quando arrivai in quella giusta, il funerale c’era già stato. Tutto nella scia tragicomica di questa famiglia cui devo molto perché l’umorismo mi viene da mio padre, era più caustico di me”.

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E sua madre che ruolo ha avuto? “Motore” o “freno”?
“Negli spettacoli gioco sul fatto che mi tiene con i piedi per terra, scherzo raccontando che – quando la avverto di un nuovo lavoro – immancabilmente replica: “Ma ti danno almeno qualcosa?”. In realtà – malgrado abbia vissuto in campagna e non abbia studi evoluti alle spalle – è di un’intelligenza emotiva fantastica! È stata lei a spingermi, però non con la modalità “Vai, sei il più forte, sei il più grande”, bensì con una domanda semplice: “Sei contento di quello che fai?”. Aveva capito che qualcosa nella mia vita mancava”.

Che periodo era?
“Mi ero diplomato come operatore turistico e mi ero iscritto a Lettere. Avevo fatto l’animatore e il boscaiolo part time a Sant’Olcese – il paesino nell’entroterra di Genova dove abitavamo – e mi stavo stabilizzando come educatore, ci mettevo tanto cuore con i ragazzi. Dentro di me una voce sussurrava “La comicità può solo essere un hobby”… Finché il richiamo è stato quasi insostenibile e a 23 anni, ormai sicuro che non fosse un vezzo o un “è figo fare l’attore”, ho saputo cosa rispondere al quesito di mia madre. Che mi ha mantenuto: entrato alla scuola del Teatro Stabile di Genova (selezione durissima, ne prendevano una decina su 800), mi sono dovuto licenziare e ha provveduto lei, sacrificando tante ore e tante energie come lavapiatti o donna delle pulizie”.

La passione per Dante era già arrivata?
“No, la devo alla mia insegnante dello Stabile, Anna Laura Messeri. Prima avevo di lui un’idea “museale”: dovendolo capire più profondamente per recitarlo, ne ho apprezzato l’immensità. E proprio lì è nata la voglia di “prenderlo in giro”, un po’ come quando da bambino imitavo le persone che mi piacevano. Ho cercato di descrivere situazioni mie (avventure senz’altro terra terra, più quotidiane) in quel tipo di linguaggio, di metrica, di ricercatezza. Usare il tono alto della poesia giustifica qualche caduta un filo greve”.

La prima volta che si è concesso di ammettere: “Ok, ce l’ho fatta!”.
“Ancora non è arrivata. Purtroppo c’è l’animo genovese pure in questo: belìn, finché dura… E poi sono convinto che, appena ti dedichi a qualcosa con la mano sinistra, l’incisività scende. L’unico modo per mantenere quello che ho è migliorare. Non c’è altra via, in questo mondo che macina tutto in fretta. Non godermi abbastanza il buono è un mio limite forte, comunque, lo riconosco. E ci sto lavorando. Ho 43 anni, spero di andare a regime prima dei 50…”.

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