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Spettacolo

Vinicio Marchioni: “Attore per caso, recitare fa sparire la mia balbuzie. Io mezzo calabrese, mi spiace che nessuno lo dica”

Vinicio Marchioni: “Attore per caso, recitare fa sparire la mia balbuzie. Io mezzo calabrese, mi spiace che nessuno lo dica”. Vinicio Marchioni attore per caso, il “Freddo” di Romanzo Criminale si racconta ripercorrendo le tappe più significative della sua vita in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Come è arrivato a fare l’attore?
«Per sbaglio. Ero iscritto a Lettere, ma avevo anche fatto domanda al Centro sperimentale, per regia e sceneggiatura, mi immaginavo raccontatore di storie. Lungi da me fare l’attore. Per la seconda annualità di storia del teatro chiesi al professore di consigliarmi un posto dove vedere la pratica. Mi diede alcuni indirizzi e mi trovai a via degli Zingari in uno strano luogo, la Libera accademia dello spettacolo, direttore Riccardo Garrone, e lì mi sentii a casa. Non me ne sono più andato. Per pagarmela ho fatto il segretario e poi sono entrato in compagnia: da quelle tournée è iniziato tutto il resto».

Che cosa l’ha fatta sentire a casa?
«Cercavo l’espressione di me, credo. Il fatto che io sia balbuziente conta: già a scuola mi sono reso conto che non lo facevo più alle recite ma ancora non pensavo di fare l’attore. Dopo è esploso il mondo: i classici, i libri, la musica, la consapevolezza di sé, gli incontri».

A casa come l’hanno presa?
«Mia madre mi ha sempre lasciato fare tutto. Ho sempre voluto raccontare, sono un grafomane, scrivevo diari fin da bambino, sentivo la necessità di ricreare dei mondi. Mi ha sempre lasciato fare anche a costo di sbatterci le corna. Un solo consiglio da lei: segui l’istinto».

È cresciuto a Fidene, periferia nordest di Roma.
«Mio nonno e mio padre la chiamavano Montesecco perché non c’era l’acqua ed era più alta rispetto a via dei Prati Fiscali. Il nonno era arrivato da un paesino in provincia di Rieti in cerca di fortuna, scavando le fondamenta per costruire una casa di famiglia. Trovò una vena d’acqua e da una baracca di blocchetti costruì quattro appartamenti dove sono cresciuto con le zie. I ricordi d’infanzia sono di una famiglia unitissima, di origine agricola e di operai.

Il nonno poi, stufo di stare in mezzo agli altri, si prese un pezzo di terra verso Palombara sulla Salaria, con fattoria e animali. Oggi dici fattoria e pensi a una cosa chic, no quella era fatta con i blocchetti, quello che si trovava, con la puzza degli escrementi delle galline. Vera cultura contadina. Quando ci fu l’incidente di Chernobyl, a scuola comprensibilmente c’era un’aria di catastrofe. Andammo lì nel fine settimana, e mia nonna: “Che ci frega, noi abbiamo la cantina piena”. Mi ricordo quel senso di protezione. Poi con gli anni ho capito».

Vinicio Marchioni: “Attore per caso, recitare fa sparire la mia balbuzie”

[…] E suo padre?
«Un uomo eccentrico. Era il segretario personale di Amintore Fanfani, poi si è licenziato, ha comprato un camion e si è messo fare l’autotrasportatore. Dopo la sua morte è stato il disastro completo. Io e mio fratello eravamo ragazzi, si è sfasciato tutto, anche la mia idea di famiglia».

Con Milena Mancini ne ha costruita una che dà l’idea di solidità.
«Abbiamo avuto fortuna, ci teniamo. Le camere oscure le abbiamo tutti, per mestiere frequentiamo luoghi dell’anima pericolosi. Ci siamo conosciuti ai tempi della seconda stagione di Romanzo criminale, lei venne per i provini. L’ho vista e mi sono fermato lì, c’è poco da dire. Ho messo in moto anche cose subdole per rivederla. Eravamo tutti e due in un momento abbastanza complesso sentimentalmente. Nella coppia è fondamentale il rispetto, la stima. Guardarla e pensare: mamma mia che brava. Io mi innamoro dei talenti, follemente. Sei mesi dopo stavo da lei. Dopo un anno mezzo è arrivato il nostro primo figlio, poi il secondo. Una storia semplice la nostra».

Vinicio Marchioni: “Sono mezzo calabrese, mi spiace che nessuno lo dica”

[…] «Romanzo criminale». Molti lo considerano il suo inizio, in realtà c’era già stato altro, per esempio Luca Ronconi.
«Nel 2005, dopo quattro anni di tournée con la compagnia, spettacoli in teatri off. Sono arrivato da Ronconi al Centro Santa Cristina ancora ingenuo, senza neanche un agente. Avevo solo capito cosa non volevo fare: mettermi in situazioni non mie. Con lui ho vissuto un’esperienza straordinaria. È stato un grande maestro di autorevolezza, mi ha insegnato il carisma che questo mestiere può avere. Cosa voglia dire essere interprete, ovvero riportare in vita lettera morta, fare da tramite per chi non conosce quella lingua. Sono stato due anni in compagnia con lui».

[…] Il suo più grande errore?
«Non c’è. Le cose vanno come devono andare. Se non rientri nell’immaginario di un regista, pazienza».

Molto zen.
«No, molto calabrese. È la mia parte materna, chi mi ha sempre fatto stare tranquillo sulle mie possibilità. È andato male questo provino? Ne arriverà un altro. Non devi mettere in giro energia brutta, ma lasciare andare le cose e cercarne altre. Il paese di mia madre è Torre Melissa, lo frequento fin da piccolo. Lì stanno i miei migliori amici. Sono quattro, ci conosciamo da 40 anni. Uno è fotografo e nei tempi bui, quando non succedeva niente e pensavo di mollare tutto e trasferirmi in Calabria, gli facevo da assistente ai matrimoni. Mi dispiace che nessuno ricordi che sono mezzo calabrese. Solo Fabio Mollo con cui ho fatto Il sud è niente, bellissimo film girato a Reggio. Faccio un appello: parlo bene il dialetto. Anche altri in verità».

In «Django» è un colonnello sudista italiano.
«È la seconda serie che faccio. È un’operazione pazzesca, in costume, attori di tutte le nazionalità, grandi mezzi, prove. Un’esperienzona».

 

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