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Spettacolo

Roberto Vecchioni: “Dio? Ci credo per 3 motivi. Piango di notte per mio figlio Arrigo. E su Sanremo…”

Roberto Vecchioni: “Dio? Ci credo per 3 motivi. Piango di notte per mio figlio Arrigo. E su Sanremo…”. Roberto Vecchioni su Dio, il suicidio del figlio Arrigo, la moglie, Sanremo, e non solo, il cantautore brianzolo di origini napoletane, 81 anni, parla a cuore aperto in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

La prima esperienza amorosa significativa non fu con la ragazza di Luci a San Siro. Prima ci furono amori casuali, che però non furono né profondi né particolarmente piacevoli. Con lei, invece, ci fu la scoperta del sesso: «Un’emozione fortissima. Quando mi lasciò fu terribile. Mi pareva di aver perso l’unica donna del mondo», rivela Vecchioni.

Roberto Vecchioni: “Picchiato dalle prostitute per una ragazza”

Anni dopo, al Car (Centro addestramento reclute) di Casale Monferrato, si verificò un episodio che segnò la sua esperienza in camerata. «Un ragazzo si sentì male. Nessuno sapeva cosa fare; io gli praticai la respirazione artificiale e lo salvai. Divenni un po’ l’idolo del gruppo. Erano tutti preoccupati per me, mi chiedevano: perché sei così triste?».

Un simbolo di quegli anni è la celebre Fiat 600, che viene citata anche in una delle sue canzoni: «Dammi indietro la mia 600, i miei vent’anni e una ragazza che tu sai…». La sua auto era davvero una 600 grigio topo, targata 860399, con sedili ribaltabili: «Non avevamo una casa o una stanza. La nostra alcova era Milano».

Un episodio legato alla 600 fu particolarmente memorabile. «Una sera eravamo nel boschetto sui bastioni di Porta Venezia. La storia stava finendo. Lei mi disse di no, che non voleva più farlo, e uscì dalla macchina. Io mi gettai nella rincorsa e mi trovai circondato dalle prostitute. Non mi ero mai accorto di loro. Mi presero a borsettate: “Porco, lasciala stare, ti ha detto di no!”. Me la diedi a gambe. Lasciai lì la 600, tornai a recuperarla il mattino dopo».

Roberto Vecchioni: “Piango di notte per mio figlio Arrigo”

La nascita della canzone Samarcanda ha una genesi curiosa. «Lessi un articolo di Antonio Ghirelli sul Giro d’Italia: “Francesco Moser ha trovato la sua fine a Samarcanda”. Non capii. La cosa mi incuriosì. Mio fratello mi mise in mano un libro, Appointment in Samarra, di John O’Hara. Non c’entrava nulla, era una storia d’amore. Ma nel frontespizio si citava una commedia di Somerset Maugham. Era più o meno la storia della canzone». In molti la interpretarono come una favola per bambini, ma il tema era tutt’altro. «Non sull’ineluttabilità; tutti sappiamo di dover morire. Quella semmai è Viola d’inverno: “Arriverà che fumo, o che do l’acqua ai fiori, o che ti ho appena detto: scendo, porto il cane fuori…”. Samarcanda è una canzone sulla perversità della morte. La sua cattiveria. Ispirata a mio padre Aldo. Proprio quando pareva guarito dal cancro, si aggravò all’improvviso, e morì».

La sua storia d’amore con Daria Colombo è un capitolo a parte. «Quando la vidi pensai: ma davvero esiste una creatura così? Non avevo mai visto una donna tanto bella in vita mia». Decise subito di corteggiarla: «La chiamai, le chiesi di uscire. Il mattino dopo la richiamai: “Vuoi uscire anche stasera?”. È stato un corteggiamento lungo. Una battaglia. Ma sapevo che era la mia compagna. Infatti mi ha salvato la vita, tante volte».

Il loro rapporto ha affrontato momenti difficili, come la perdita del figlio Arrigo. «Un ragazzo che non apparteneva a questo mondo: per discrezione, generosità, senso dell’umorismo. Era fantastico con i bambini. Vale per lui quello che ho scritto in una canzone per Van Gogh: “Questo mondo non si meritava un uomo bello come te”. Arrigo era un grande scrittore, ha composto poesie straordinarie. Ed era un grande interista». La perdita è stata devastante, ma il ricordo rimane vivo: «Durante il giorno mi faccio forza, anche per mia moglie. Inoltre lavoro moltissimo, ma qualche notte, quando Daria dorme, mi ritrovo a piangere». Sul tema della malattia mentale, un aspetto che ha segnato la vicenda di Arrigo, afferma: «La malattia mentale viene ancora affrontata come una vergogna; invece se ne deve parlare. Forse io e Daria scriveremo un libro».

Roberto Vecchioni: “Dio? Ci credo per 3 motivi”

Negli anni ha combattuto contro l’alcolismo, smettendo completamente da dieci anni: «Proprio perché l’alcol mi distraeva dai figli. Ma ad Arrigo non è bastato. Non siamo riusciti a capirlo». Riguardo alla società, sottolinea la necessità di un’assistenza migliore: «Le forme bipolari sono aumentate con il Covid, lo stravolgimento dei rapporti umani ha fatto il resto, e l’assistenza sanitaria è gravemente insufficiente. Troppe famiglie vengono lasciate sole. È una battaglia che io e mia moglie vorremmo combattere».

Profondamente credente, spiega i motivi della sua fede legati soprattutto a 3 motivi. «Il primo è scientifico. Il mondo non è perfetto. Dio ci ha cacciati dal Paradiso terrestre per darci il libero arbitrio, la libertà di sbagliare, l’imperfezione». Il secondo è legato alle emozioni: «Sono certo che le emozioni non siano soltanto un fatto chimico». Infine, c’è la creazione artistica: «Nell’arte umana c’è una scintilla divina».

Il suo rapporto con Sanremo è legato alla vittoria nel 2011. «Sono sempre stato amico di Gianni Morandi. Nel 2010 cominciò a rompermi le scatole: l’anno prossimo il festival lo faccio io, e tu devi portare una tua canzone». La canzone nacque in un momento di angoscia per il Paese: «Ero in hotel a Roma. Era arrivata la grande crisi finanziaria dall’America, molti operai perdevano il lavoro. Il portiere napoletano mi disse: “Adda passà ‘a nuttata”. In ascensore ho tradotto: “Questa maledetta notte dovrà pur finire…”. In camera l’ho scritta. Alle 4 del mattino ho chiamato il mio arrangiatore per cantargliela. Poi ho telefonato a Morandi: “Gianni, ho la canzone per Sanremo”».

Infine, riflette sulla sinistra italiana: «Perché la sinistra perde sempre? Perché la destra è una via dritta; la sinistra ha mille idee, molto diverse. Diceva Bobbio che la destra è stringere, la sinistra è allargare. Da noi però si allarga un po’ troppo».

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