Dacia Maraini: “Morte Pasolini? Dietro un mistero più grande di noi. Stavo per morire quando ho perso il bimbo”. Dacia Maraini sulla morte di Pasolini, la perdita del figlio, l’incontro con Moravia, e non solo, la scrittrice siciliana, 87 anni, si racconta ad Aldo Cazzullo in una lunga intervista per ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
[…] La sua stessa vita sembra un romanzo.
«A partire dai miei nonni. Antonio Maraini, scultore, quello che reinventò la Biennale d’arte di Venezia secondo i dettami fascisti. Sposò la bellissima inglese Yoï Crosse, mia nonna. L’altra nonna era la cantante cilena doña Sonia de Ortuzar, una che aveva studiato con Caruso: peccato che non poté mai esordire, perché era sconveniente per una donna dei primi del Novecento calcare il palcoscenico».
[…] La scrittura come un alfabeto emotivo appreso da bambina?
«Avevo due anni quando Fosco, mio padre, e Topazia si trasferirono a Kyoto. Lì nacque mia sorella Toni: avrebbe dovuto chiamarsi Akiko, ma le leggi fasciste non consentirono un nome che non fosse l’italianissimo Antonella. L’altra mia sorella Yuki all’anagrafe risulta Luisa».
Fosco ruppe con suo padre proprio perché antifascista.
«Antonio Maraini gli diede la tessera del partito avvisandolo che senza non avrebbe mai lavorato. Per tutta risposta Fosco stracciò la tessera e gettò i brandelli addosso a suo padre. Non si sono parlati per dieci anni».
Nel 1943 i suoi genitori rifiutarono di giurare fedeltà a Salò e voi veniste internati in quanto nemici del governo giapponese, alleato di Mussolini.
«Quando arrivavano lettere per noi, i carcerieri si divertivano a strapparle davanti ai nostri occhi. Mancava il cibo, noi bambine ci intossicammo inghiottendo formiche. Quando papà, secondo il rituale giapponese, si tagliò un dito, ci regalarono una capra: grazie al suo latte potemmo mangiare».
Dacia Maraini: “Stavo per morire quando ho perso il bimbo”
Poi il ritorno in Italia. La Sicilia.
«Era il 1946, le donne a Bagheria erano tutte vestite di nero. Conoscevo il dialetto di Kyoto, l’ho disimparato. Cominciai a scrivere articoli, avevo appena tredici anni. Mia madre era amica di Guttuso, mio padre Fosco, nonostante la fama di antropologo, faceva fatica. Anni difficili, pochi soldi. Si separarono. Fosco si trasferì a Roma, io restai in Sicilia, poi lo raggiunsi nella capitale. Volevo essere indipendente: ho fatto la segretaria, poi la hostess per la Pan Am».
Poi si sposò con Lucio Pozzi, perse un figlio al settimo mese.
«Fui sul punto di morire anch’io».
[…] Lei scrive il suo romanzo d’esordio, «La vacanza», dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.
«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».
E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.
«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».
Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.
«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».
[…] Com’era la vita con Moravia?
«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».
Dacia Maraini: “Morte Pasolini? Dietro un mistero più grande di noi”
[…] Prima di lei, al fianco di Moravia c’era Elsa Morante.
«Quando mi misi con Alberto lei era innamorata di un giovane pittore americano. Soffriva spesso per amore, ma amava giocare, inventava giochi di società, fatti di parole».
[…] Pasolini.
«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.
«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».
[…] Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».
[…] Che cosa è per lei scrivere?
«Dura disciplina. Scrivere una pagina può essere facile; crearsi uno stile richiede anni di lavoro. Ogni mattina mi alzo presto, mi vesto con cura prima di mettermi a scrivere: la letteratura merita rispetto. Faccio una pausa a mezzogiorno, poi riprendo fino al pomeriggio inoltrato».
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