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Beruschi: “In pensione da quando avevo 53 anni. Non sono meteora, non mi vedete più in Tv per un motivo”

Beruschi: “In pensione da quando avevo 53 anni. Non sono meteora, non mi vedete più in Tv per un motivo”. Enrico Beruschi sulla pensione, la lunga assenza dagli schermi, Drive In, e non solo. L’attore e comico milanese, 83 anni, parla a tutto tondo in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

A 83 anni non farà tv ma in compenso entra ed esce da teatro.
«Tra poco scappo: in via Fezzan, a Milano, portiamo Il Misantropo di Molière. La mia è la voce esterna e non ho costume di scena, a parte forse la cravatta».

[…] Riavvolgiamo il nastro. Dunque Enrico Beruschi, celebrità comica di una tv pionieristica, indimenticabile ragioniere di «Drive In», adesso cosa fa?
«Teatro, letture su Guareschi, regie di lirica, sto scrivendo un’autobiografia. Grazie per l’”indimenticabile”: in tv non la pensano così. Qualcuno mi definisce meteora».

Lo è?
«Ho iniziato al Derby di via Monte Rosa nel ‘72, ho fatto Non Stop nel ‘77, nel ‘78 La Sberla, pure Sanremo nel ’79 (un comico in finale), nell’83 Drive In, senza contare Luna park, il Circo, Conto su di te e altro, a seguire le parti al cinema e il teatro. Una meteora sparisce, io dispettosamente persisto».

Da quanto è in pensione?
«Dal 1994, avevo 53 anni».

Questa è una delle sue battute.
«No: è vero. Allora gli attori andavano in pensione presto, ho sommato 15 anni di contributi e altrettanti dai lavori precedenti. In verità ho continuato a fatturare, quindi fino a 65 anni non ho visto pensioni. Tuttora lavoro».

Beruschi: “In pensione da quando avevo 53 anni”

Ma non è più in tv.
«Con Antonio Ricci, che è un amico (a lui si deve Drive In, ndr), poco tempo fa ho registrato tre puntate di Striscia la notizia sostituendo all’ultimo Enzo Iacchetti che era malato. Ezio Greggio non lo vedevo da tanto però è stata subito sintonia. Ammetto: una parentesi, non faccio più tv. Perché? Non lo deve chiedere a me».

Agli atti il tono amareggiato. Rilanciamo: secondo lei perché?
«Forse sono fuori registro. La nostra era una tv fantasiosa, per qualcuno “piccante”, in verità se la guardi ora è una clausura, è ingenua. Una volta ho protestato perché una scena finiva con una ragazza fast food sull’auto in cui si abbassavano i sedili. “Lasciare intendere è ok, però le ragazze devono restare nel sogno”. Si sono rialzati i sedili. Mi hanno ascoltato».

Drive In è un cult.
«Avevamo registrato la puntata pilota a Roma, sapevamo di avere contro diversi pezzi grossi in Fininvest: definivano il programma “strano”. Ultimato il lavoro Ricci, Greggio, Giancarlo Nicotra e io abbiamo studiato un piano. Loro sono partiti in auto per portare la cassetta a Berlusconi, a Milano, e chiedere il via libera, a me hanno affidato la seconda copia (se la prima fosse “accidentalmente” sparita?). Mi sono chiuso in un residence, ho messo la cassetta sotto il letto e ho fatto la guardia per 24 ore».

Come è andata?
«Berlusconi non li riceveva: “Non ho tempo, andate a pranzo”. Abbiamo scoperto solo dopo che in pausa aveva convocato impiegati e persone fidate per chiedere un parere. Drive In è piaciuto. Ricordo la chiamata: Enrico, puoi uscire…».

Lei aveva già un contratto?
«Nella primavera ’82 avevo fatto uno spettacolo nella Club House a Milano 2. Berlusconi era il padrone di casa, siamo restati fino all’una di notte: lui cantava, Smaila suonava. A novembre ci siamo incrociati a un concerto di Liza Minelli. “Enrico, hai visto che ho fatto la televisione vera? Cosa aspetti a presentarti?”. Io allora lavoravo in Rai ma non ci ho pensato due volte».

Beruschi: “Non sono meteora, non mi vedete più in Tv per un motivo”

Cachet?
«Contratto in esclusiva, appunto, e compenso strabiliante: cinque volte quello della Rai».

Ha lasciato la trasmissione dopo soli tre anni.
«Che pirla. Finiva l’esclusiva, stupidamente ho pensato: esploro il mondo. Berlusconi lo viene a sapere, mi convoca in via Rovani, usa la sua tecnica: mi fa fare un’ora di anticamera, intanto arrivano casualmente prima un tecnico, poi una segretaria, poi una signora delle pulizie, tutti a dire: non andare. Invece sono andato».

E?
«Mi sono bloccato. Ipotizzarono per me il sabato sera su Canale 5 con Paolo Villaggio, i due ragionieri. Villaggio però non condivise: due son troppi. Lui era quello “di peso”, bye bye Beruschi».

Pentito?
«Non rimpiango niente. Certo un po’ brucia: mea culpa».

[…] La sua prima vita: ragioniere in Galbusera.
«Fino a diventare vicedirettore commerciale. Qualche collega oggi se ne esce: il ragioniere ci terrorizzava».

Addirittura.
«Ero lo strano figuro che raccontava di essere amico di Cochi e Renato ma allo stesso tempo dava le multe ai venditori: 5 mila lire per un errore così così, 10 per uno grosso (a una certa cifra raccolta si andava tutti a cena). Ero puntiglioso. I sindacati non mi amavano».

Quando ha fatto il salto nello spettacolo?
«Nel 1972 ho seguito personalmente la meccanizzazione dell’azienda: arrivavano computer giganteschi. Un lavoro ben riuscito, prendevo 300 mila lire al mese e mi aspettavo un aumento di stipendio. Invece mi diedero una pacca sulla spalla e una mancetta. Sono rimasto male. Per sbollire quella sera sono andato al Derby, dove si esibivano da tempo Cochi e Renato, miei ex compagni di scuola. Mi vede Walter Valdi e dice: “Uè, se dis che te set bon de fa rid, duman sera te provet”. Domani provi. Che choc».

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