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Elisabetta Sgarbi: “Editore e non editrice, mi piace un’idea. Farmacista? Lo sono ancora”

Elisabetta Sgarbi: “Editore e non editrice, mi piace un’idea. Farmacista? Lo sono ancora”. Elisabetta Sgarbi “editore e non editrice”, la 68enne regista ferrarese, sorella del critico d’arte e politico, concede una intervista a tutto tondo all’edizione online de ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Elisabetta Sgarbi: editore o editrice?
«Editore. Mi piace l’idea di riempire di femminile un termine maschile».

Lei però nasce farmacista.
«Per la verità lo sono ancora: sono titolare a Ro Ferrarese della Farmacia Storica Rina e Nino Sgarbi».

Gian Antonio Cibotto è stato fondamentale.
«Entrava a casa nostra con la sua mantella scura, passando per la farmacia, gridando: “Dov’è la mia Ofelia?”. Mio padre si arrabbiava: “Ofelia ha fatto una brutta fine!”. Mi vedeva tristissima. Così cominciò a trascinarmi sulla sua Mini bianca nei teatri del Polesine. Mi introdusse come giurata a vari premi, dall’Estense al Campiello, che aveva fondato. Mi segnalò allo Studio Tesi di Pordenone, una piccola Adelphi diretta da Pierpaolo Benedetto, e poi fece il mio nome a Mario Andreose».

Altro personaggio chiave.
«Al primo colloquio a Milano non mi presentai. Mario chiamò mia madre a Ro, dicendo che era inaudito. Andai al secondo, e lei, per essere sicura, mi accompagnò. Gli chiesi quale sarebbe stato il mio stipendio mensile. Alla sua risposta, gli dissi che il giubbotto che indossavo costava di più. Insomma, feci di tutto per non farmi prendere. Insieme costruimmo una nuova Bompiani».

Elisabetta Sgarbi: “Editore e non editrice, mi piace un’idea”

[…] Esiste la competizione?
«Certamente. Litigai con Calasso perché mi portò via Sebald, che avevo pubblicato alla Bompiani, in un modo rapinoso, facendomi scrivere da Andrew Wylie. Lui non mi parlò per anni perché portai alla Bompiani la leggendaria traduzione dei Saggi di Montaigne di Fausta Garavini, una pietra miliare del catalogo Adelphi. Non c’entrano la stima o la simpatia, mai mancate. È recidere il legame che si ha con libri e autori, che genera rabbia e sofferenza».

[…] Da poco ha perso i diritti di «Triste tigre» di Neige Sinno.
«Ma stavamo seguendo il romanzo di JB Andrea, Vegliare su di lei, che poi ha vinto il Goncourt. Un editore ha un catalogo di libri persi: “È l’acquario di quello che manca”, direbbe Enrico Ghezzi».

Quanto è importante il catalogo per una casa editrice?
«È fondamentale. Era il nostro grande timore quando siamo partiti, nove anni fa. Costruirlo e tenerlo vivo sono la cosa più difficile e importante per un editore: è la risorsa prima e la misura di giudizio di una casa editrice».

Lo scrittore che le incute più soggezione, se esiste…
«Umberto Eco. Ero veramente intimidita. Ma non era colpa sua, lui era affettuoso. Sono io che sono timida».

I suoi talent scout?
«Non glielo direi mai. Sono la prima cosa che gli editori si sottraggono l’un l’altro».

[…] Una volta mi ha detto: «Ho letto anche i libri che non ho letto». Cosa intendeva?
«L’alchimista di Paulo Coelho l’ho letto dopo averlo acquistato, perché era in portoghese. Ma ci ero entrata, “capendo” nonostante i miei limiti linguistici. La Settologia del Nobel Jon Fosse non esisteva quando la contrattualizzai. L’intuizione editoriale talvolta è più lucida della lettura integrale del testo».

Elisabetta Sgarbi: “Farmacista? Lo sono ancora”

Adesso di Scerbanenco non solo è editrice, ma anche regista. È stato un vantaggio pubblicare prima i suoi libri per costruire la regia del nuovo film, «L’isola degli idealisti»?
«Fondamentale. Non avrei mai potuto girare un noir di Scerbanenco scritto negli anni 60: alla De Leo, per intenderci. È stata la scoperta dello Scerbanenco degli anni ‘40 e ‘50 che mi ha aperto una dimensione diversa, in cui il noir è lo sfondo per il melodramma. L’isola degli idealisti è un film sui progetti impossibili. E io amo i progetti “impossibili”».

Ha tanti «figli», nati dalla sua creatività, determinazione e capacità generatrice: penso alla Nave di Teseo, alla Milanesiana, ai film. A «chi» tiene di più?
«Non riesco a distinguerli in modo così netto. Per me è tutto un flusso, sono mondi connessi».

Quale edizione della Milanesiana, in questi 25 anni, le è rimasta nel cuore?
«La prima, con Carmelo Bene e Riccardo Muti a chiuderla. E un Houellebecq ancora non così noto».

Quanta della sua timidezza c’è in quest’ultima edizione?
«C’è tutte le volte che salgo sul palco a presentare gli ospiti. È un dovere, ma che fatica!».

Di tutte le cose che ha fatto, di quale è più orgogliosa?
«Di qualcosa che non ho fatto io: essere figlia dei miei genitori, ed essere sorella di mio fratello».

In quale momento avrebbe voluto che ci fossero ancora i suoi genitori?
«È un argomento doloroso. Sempre. Mi manca mia madre che smitizza i successi e anche gli insuccessi. E mio padre, che guarda con distanza le turbolenze umane».

La cosa più coraggiosa che ha fatto in campo editoriale?
«Lasciare la Bompiani e fondare La nave di Teseo».

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