Cristina Caprioli: “Svezia non più genuina. Non sopporto una convinzione neoliberale. E sulla danza…”. Cristina Caprioli sulla Svezia, la carriera, e non solo, la ballerina e coreografa di origine italiana residente in Svezia, 70 anni, si racconta in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
[…] rappresenta un unicum: i suoi spettacoli sono gratuiti […] il 21 luglio riceverà il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Danza 2024.
“Non potevo crederci: non sono mai stata “famosa” od orientata al marketing. Sono passata dallo shock alla felicità e, subito dopo, alla preoccupazione (ride): mi piace rimanere in un angolo, dove nessuno mi vede. Sono a disagio quando devo diventare la “faccia” delle opere”.
[…] È una degli ultimi utopisti!
“Utopista, sì. Non sopporto questa convinzione neoliberale che la cultura debba generare profitto… Questo va bene per i musical, per quel che è già concepito come prodotto, ma è sbagliatissimo per noi. Se togli dalla società il concetto del ballo come arte indirizzi tutti verso cose “meccaniche”, che ti offrono un risultato chiaro, immediato, che consumi per passare in fretta a un altro”.
Cristina Caprioli: “Non sopporto una convinzione neoliberale”
[…] Il suo primo incontro con la coreutica?
“Ho iniziato da piccola a Brescia come un gioco, forse lo voleva mio padre (il pittore Adriano Grasso Caprioli, ndr): mi è piaciuto, sono nervosa, ho bisogno di muovermi (ride). Ma il vero incontro – quello che mi ha fatto sentire la potenza del movimento in sé – è stato a otto-nove anni, quando i miei mi hanno portato a vedere Rudolf Nureyev a Genova. “Ah, quindi è qualcosa in più del tutù, dei gesti aggraziati…” (ride). La ballerina non era più l’eterea principessa, la donna spogliata della sua sensualità. Lì per lì ho continuato, comunque, come hobby”.
La svolta?
“Finita la maturità liceale. Non sapendo bene che strada intraprendere, sono andata in Svezia per l’estate e ho partecipato all’esame per entrare in un’accademia di danza moderna e jazz. Mi hanno preso, sono rimasta. Sono come “scivolata dentro””.
Perché in Svezia?
“Mia madre è svedese, si è trasferita in Italia nel 1951, quando ha sposato mio padre. Ho iniziato come ballerina in Svizzera, in Germania, in Austria, e, dopo un po’, mi sono stancata: troppo convenzionale. Sin dai tempi della scuola ero interessata alla matematica, alle strutture architettoniche: ho una testa affascinata dai disegni del movimento e la danza moderna – come la si praticava in Europa negli anni Settanta – non soddisfaceva questo mio interesse più cerebrale. L’unica novità era il teatro-danza di Pina Bausch: lo amavo, era fantastico, ma non è per me, c’è troppa espressività e non c’è atemporalità, astrazione. Sapevo che in America si parlava di postmoderno e anche di post-postmoderno. Mi sono trasferita fino all’81”.
Cristina Caprioli: “Svezia non più genuina”
Nell’81 che cosa è successo?
“Ho lasciato New York, ho cominciato a insegnare, e nell’83 – quando mi hanno chiamata in Svezia (ero stanca di cambiare città e appartamenti) – sono andata per sei mesi e… sono rimasta: ero stanchissima della vita nomade dei professionisti, l’interesse per la coreografia iniziava a essere importante e non avevo bisogno né voglia di stare in scena. Desideravo costruirmi una famiglia mia: ho incontrato il mio ex marito, ho avuto i figli…”.
Dovendo conciliare carriera e privato, non si è trovata in difficoltà?
“No. La Svezia è famosa per l’emancipazione, l’uguaglianza, la democrazia, e io – pur avendo un quadruplice svantaggio (donna; entrata nel campo dei coreografi già quarantenne con due figli; preoccupata degli aspetti intellettuali e, per di più, immigrata) – ho trovato il mio spazio. Il mito del Paese libero all’epoca era genuino, adesso invece è un posto ricchissimo, dove nessuno intende rinunciare o condividere i privilegi”.
Nel 1998 ha fondato la cristina caprioli artificial projects. Come mai “artificial”?
“Non intendevo descrivere la danza come qualcosa di “naturale”. Non è naturale! Sì, c’è l’aspetto fisico, ma è pure una costruzione immaginaria, seppur minimalista. È arte come “aggiunta”, non come rappresentazione del mondo, specchio della figura umana. Non è antropomorfa, un oggetto può essere parte integrante della coreografia” (foto frame video).
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