Marino Bartoletti: “Il mio arresto a Montevideo fu un errore. Ho amato Maradona più di tutti per un motivo”. Marino Bartoletti sull’arresto a Montevideo, Maradona e non solo, il giornalista romagnolo, 74 anni, ripercorre la sua lunghissima carriera in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
[…] Sua madre voleva una bambina.
«È vero, ma invece di Benedetta sono arrivato io: almeno ero senza baffi. Da buona sarta, mamma aveva già preparato tutto il corredo rosa, con pizzi e cuffiettine che indossai per tutto il primo anno di vita».
[…] La passione per la musica arriva prima di sport e giornalismo?
«Sì, l’ho presa proprio da mio padre che era un ottimo polistrumentista ed era ambitissimo da tutte le orchestre di liscio in Romagna. Io suonicchio ancora la chitarra, ma fino a “Quelli che il calcio” questa passione l’ho tenuta per me: lì mi presi lo sfizio di invitare tutti i miei idoli degli anni 60».
[…] Nel ’68 inizia a lavorare: cosa sognava?
«Sognavo il Guerin Sportivo, avevo già il prurito alle mani e la Lettera 32: se penso a quanti posti nel mondo ha visto quella macchina per scrivere, penso di aver realizzato quel sogno. Sentire quel ticchettio mi dà ancora un colpo al cuore quando mia nipote mi chiede di giocare con le vecchie “tastiere”».
Ha avuto un mentore?
«Aldo Giordani mi notò per la rivista Pressing che facevo da solo a Forlì e mi disse di andare a Milano a parlare con Gianni Brera, direttore del Guerino. Andai in stazione, inseguito da mia madre che mi chiedeva cosa ci fosse a Milano che non c’era a Forlì. Risposi che “c’era la Madonnina, mi assisterà lei”. Si tranquillizzò».
Marino Bartoletti: “Il mio arresto a Montevideo fu un errore”
Come inviato dell’Occhio di Maurizio Costanzo fu anche arrestato.
«Dopo gli anni da inviato al Giorno, subii il fascino di via Solferino, ma Costanzo se ne andò dopo poco e rimasi disoccupato. L’arresto, per errore, fu a Montevideo al Mundialito di fine 1980: capitai in mezzo a una rissa nel tunnel degli spogliatoi e un ufficiale pensò di aver preso un calcio da me. Mi portarono in una specie di prigione: dovette intervenire l’ambasciatore».
La disoccupazione come finì?
«Palumbo mi chiamò in Gazzetta, ma rifiutai per fare sei mesi alla Rai di Milano, dove nessuno voleva curare i collegamenti con il Processo del lunedì: seguii i Mondiali del 1982 da freelance, ma subito dopo tornai al Guerino come inviato e mi fu proposta la conduzione del Processo».
Fu la svolta?
«Sì, perché capii di poter stare in tv con serietà, competenza e un pizzico di ironia. Da lì andai alla Domenica sportiva».
Maradona, Platini, Zoff, Scirea, Paolo Rossi. A chi è più legato?
«Forse quello che ho amato di più per la sua fragilità è Maradona: lo conobbi durante i Mondiali del 1978 in Argentina, a cui lui non partecipò; lo ritrovai nel 1984 in una tournée della Nazionale di Bearzot a New York e gli portai la maglia del Napoli per fare lo scoop, dato che era in procinto di lasciare Barcellona. Nacque un’amicizia molto importante».
L’accesso ai campioni era molto diretto?
«Chiamavo Diego a casa e se non rispondeva chiamavo Bruscolotti, perché lo avvertisse. Quando ero a Mediaset accettò un’intervista per Pressing “solo per amicizia”. Ma c’era un prezzo da pagare: una audiocassetta in anteprima con le sigle dei cartoni cantate da Cristina D’Avena, dai Puffi a Kiss me Licia».
Marino Bartoletti: “Ho amato Maradona più di tutti per un motivo”
Momenti negativi ci sono stati?
«Ricordo quasi con dolore la mia direzione a RaiSport. Avevo già ideato “Quelli che il calcio” quando ricevetti la chiamata di Letizia Moratti. Cominciai con tanto entusiasmo, però dopo due anni e mezzo la cosa finì e capii che era meglio non fare domande: semplicemente il vento era cambiato».
«Quelli che» cosa rappresentò?
«Forse la cosa professionalmente più bella che ho mai fatto, almeno in tv. Una creatura che ho difeso in culla, quando nessuno la voleva condurre: chiedemmo anche a Dario Fo, ma Franca Rame ci rispose indignata. Si arrivò a Fabio Fazio per eliminazione: lui fece la fortuna della trasmissione e viceversa».
Il grande romanzo italiano è la Nazionale di calcio o il Festival di Sanremo?
«Per me è come scegliere tra papà e mamma, ma dico il Festival, perché quando vado a Sanremo vado a Disneyland. Diffido di chi diffida di Sanremo, perché vuol dire non riconoscersi nello specchio della nostra società».
Lucio Dalla la chiamava Bartolino?
«Usava un soprannome per tutti e quando voleva fare l’asino mi faceva gli agguati dietro le colonne di piazza Santo Stefano a Bologna: Lucio mi manca tanto. Mi fa molto sorridere vederlo sepolto accanto a Giosuè Carducci. Ne sarebbe molto fiero».
Marino Bartoletti: “Le mie figlie hanno scelto percorsi diversi”
[…] Le sue due figlie hanno scelto percorsi diversi da quelli paterni?
«Sì, una ha fatto l’accademia delle belle arti ed è una affermata scenografa, l’altra ha fatto il Dams: ha una cooperativa di teatro per ragazzi e insegna anche giocoleria e arti circensi».
Ha avuto tanti nemici?
«Due tre persone mi hanno fatto del male: a un certo punto mi sono accorto che montava un sentimento di invidia, ma io sono rimasto sempre Marino».
[…] La malattia cosa le ha lasciato?
«La convinzione che dovremo volerci più bene, cercando di fare più prevenzione. Sono stato molto fortunato, perché tutto è stato preso in tempo, ma devo la mia vita a persone che sapevano terribilmente il fatto loro».
[…] Ma lei da grande cosa vuole fare?
«Scrivo tanto del paradiso che comincio a pensarci seriamente. Mi piace immaginare che ci sia un aldilà in cui si può star bene e trovare le persone che abbiamo amato. Le statistiche Istat mi concedono ancora 8 anni e mezzo di vita e spero che siano anni sereni e fertili come adesso: dopo la Partita degli dei devo cominciare a pensare al Festival degli dei».
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