Home » Vecchioni: “Morte di mio figlio? Ho una metafora per spiegarlo. Porterei Putin in un prato della pianura padana”
Gossip

Vecchioni: “Morte di mio figlio? Ho una metafora per spiegarlo. Porterei Putin in un prato della pianura padana”

Vecchioni: “Morte di mio figlio? Ho una metafora per spiegarlo. Porterei Putin in un prato della pianura padana”. Roberto Vecchioni sulla morte del figlio Arrigo (scomparso lo scorso aprile a 36 anni) e non solo, il cantautore brianzolo, 80 anni, si racconta in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Sulla guerra in Ucraina

«Non c’è lungimiranza. Io vorrei portare Putin davanti ad un prato della pianura padana per fargli vedere quanta erba c’è. Poi tirare su un filo e dirgli: “Questo prato è l’universo, questo filo è la Russia, cosa credi di fare?”. Aveva ragione, nel suo pessimismo, che però si rivolgeva alla grazia di Dio, Blaise Pascal. Lui pensava che gli uomini si odiassero l’uno con l’altro. È il celeberrimo “Homo homini lupus” di Hobbes. Per Pascal gli uomini vogliono annientarsi per primeggiare. Ma forse il difetto insito nella costruzione umana e nella civiltà è proprio l’incapacità di considerarsi uguali. Quasi fosse una sconfitta, essere uguali agli altri, e non una vittoria».

Quella volta ‘in treno con Dio’

«Sì c’è una canzone che lo spiega. È “La stazione di Zima”. Nasce da Evtuscenko. Io sono in treno con una persona, con qualcuno che è probabilmente Dio. Lui mi dice “vieni con me, ti porto in un posto meraviglioso”. E io rispondo di no. Sono ancora nell’incertezza tra il laico e il sacro. Dico no e scendo alla prima stazione che c’è, Zima. È orribile, c’è un solo vaso di fiori ed una sola luce, che si rompe sempre. Però è la terra e io voglio vivere. Pensavo, come dice Pasternak, che questa vita non è un’anticamera, è già una sala ed è questo l’importante. Voglio vivere prima tutta la vita e poi vediamo se… Ma in quel vediamo c’era già l’idea che non tutto finisse in questa sala. Che ce ne fosse un’altra, molto più comoda e luminosa. E proprio ragionando sull’umiltà degli umani, sulle sconfitte e le sofferenze, sulle ingiustizie subite, sul male che c’è nel mondo e che spesso ci domina, mi sono detto che non può non esserci una contropartita. Deve esserci qualcosa, perché non può finire così».

Gli errori che consiglierebbe a sé stesso bambino di non fare

«Ne ho fatti tantissimi, anche grandi. C’è sempre gente che dice “no io non rifarei tutto quello che ho fatto”. Ma, in realtà, se fai un’altra cosa, sbagli lo stesso. È una dimensione borgesiana: i sentieri che si biforcano e qualsiasi direzione prendi è sbagliata, dovevi prendere l’altra. Rinuncio ad un errore per farne un altro. L’esistenza non è fatta per trovare sempre la giusta via. Noi ci siamo ribellati all’idea di avere le strade segnalate per essere felici e abbiamo detto: no, noi vogliamo soffrire sulla terra, dobbiamo cercare, sbattere, cadere, rialzarci. La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro. Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi».

Su Sanremo

«Inimmaginabile, quello che è successo. Innanzitutto quel rompicoglioni di Morandi che mi telefonava ogni giorno per farmi andare. È persino venuto a casa mia da Bologna per prendermi per il collo. Io gli dicevo che non avevo brani, che la mia musica con Sanremo non c’entrava niente. Ma lui insisteva. Una sera mi trovavo a Roma per un concerto. Vivevamo un periodo brutto, il 2011, e io ero addolorato per l’Italia. Il portiere di notte dell’albergo mi disse “Professo’, adda passà ‘a nuttata”. Io ero in ascensore e quella frase mi era restata dentro. Pensavo “questa maledetta notte dovrà pur finire”. In camera avevo scritto già mezza canzone, nella mia testa. Non avevo niente per scrivere e allora ho telefonato al mio arrangiatore e gli ho cantato tutta la canzone per telefono. Il giorno dopo ho chiamato Morandi e gli ho detto: “Gianni, ce l’ho, la canzone”».

Le sue canzoni che ama di più

«Per le parole sicuramente “Le rose blu” o altre, come “Figlia”. Amo anche la musica di “Chiamami ancora amore”. Oppure “Miracolo segreto” che è un racconto di finzione ispirato a Borges. Chiedo a Dio di lasciarmi il tempo di scrivere un romanzo prima di morire. Quella è forse la più bella melodia della mia vita, ha uno stampo pucciniano».

Roberto Vecchioni sulla morte del figlio

[…] C’è un altro brano, quello su tuo figlio Arrigo, morto a trentasei anni due mesi fa: «Figlio chi si è preso il tuo domani /quelli che hanno il mondo nelle mani».
«Questa è una canzone che io amo tantissimo, anche se non è mai andata. Era un ritratto abbastanza preciso di una pubertà, di una gioventù che si lasciava andare. Arrigo aveva tante meravigliose qualità, in primo luogo la sensibilità. Ma anche tante debolezze, insicurezze, incertezze che non c’era modo di fargli passare e che forse aumentavano nel vedere il padre che aveva successo. Ma qui siamo alla domanda di prima: che strada prendere? Che errore non fare? Rinunciare ai concerti? Non lo so…»

«Cosa è stata per me la sua fine? Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: “Si impara soffrendo”. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffrendo, sperando di tornare alla felicità. È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e ideali. E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente.

Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox. Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no…” hanno risposto. “… abbiamo visto, prendiamo lui”». Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita».

Seguici anche su Facebook. Clicca qui

Loading...
Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com