Rita Pavone: “Altro che body shaming, io massacrata per un aspetto. La svolta grazie a un frigorifero…”. Rita Pavone, il body shaming e non solo, la cantante torinese, 77 anni, parla a tutto tondo in un’intervista-chiacchierata rilasciata a Walter Veltroni per ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
“Io non sono figlia d’arte, mio padre faceva il tornitore. Da bambina cantavo una vecchia canzone messicana. Ero su un tavolo, sul quale facevo fatica a salire e a scendere. Sono sempre stata piccolina. Papà si mise in testa che avevo talento, è stato il mio scopritore e il mio manager. Mi fece fare delle foto in cui sembravo più alta e mi portò a «Telefoniade» un premio organizzato dalla Stipel, la società telefonica del tempo, al teatro Alfieri. Cantai una canzone di Al Jolson, tutta truccata, e poi Arrivederci Roma. Vinsi e da allora cominciai a girare per i locali di Torino, una gavetta dura e importante. Il pubblico era severo, mi guardava dall’alto in basso e non ci metteva granché”.
[…] Una sera a Milano, all’Olimpia dove suonava Gorni Kramer, a qualcuno venne in mente di dire alle forze dell’ordine venute per un controllo che quella sera avrebbe cantato «la ragazzina». Avevo sedici anni e non potevo farlo, mi dissero di andare via. Fu molto triste. E poi mi ero stufata di vedere e sentire nei locali, tra il pubblico, le ironie sulla mia statura. Altro che body shaming, mi massacravano. Decisi di smetterla, avrei seguito i consigli di mia madre che mi aveva progettato la vita che in quel tempo era prevista per le signorine come me. Un lavoro, quale che fosse, un fidanzato che lei aveva già scelto e via così”.
Rita Pavone: “Altro che body shaming, io massacrata per la mia statura”
“Ma mio padre non voleva. Una sera ci fu una grande litigata tra loro. Papà mi aveva iscritto di nascosto al festival degli sconosciuti di Ariccia. «Sei un irresponsabile, con quale soldi Rita va a Roma?» gli chiese lei. Lui rispose, fermo: «Tu non hai messo da parte i soldi per comprare il frigorifero?». Mamma non credeva alle sue orecchie, noi ancora stavamo con la ghiacciaia e il frigorifero ci sembrava un sogno. Rispose a papà che non se ne parlava nemmeno.
Fu allora che mio padre disse la frase che non ho mai dimenticato, «Penso che la vita di mia figlia valga più di un frigorifero». Per me la musica era il riscatto. A dodici anni facevo la camiciaia, lavoravo nove ore al giorno, prendevo due autobus alle cinque del mattino. Ad Ariccia vinsi. Quando tornai in treno, era notte, trovai mio padre al binario. Gli dissi per scherzo che anche lì era andata male. Gli vennero gli occhi umidi ma lo abbracciai e festeggiammo”.
[…] So che non ero bella, ma ho avuto molti corteggiatori. Persino Gianni Morandi mi faceva il filo, ma non era il mio tipo. Siamo sempre restati amici. Era come mio fratello. Ci sentiamo simili. Suo padre calzolaio, il mio tornitore. Tanta fatica, tanta gavetta. Io sono arrivata illibata al matrimonio, nonostante i miei ormoni galoppassero.
È stata dura, immagino anche per Teddy. Lui aveva diciannove anni più di me e nell’Italia bigotta del tempo fu visto come uno scandalo. Ci siamo sposati nel 1968 e stiamo ancora insieme. Ora lui qualcosa non la ricorda più ma ci basta uno sguardo per capirci. Ce ne dissero di tutti i colori e forse da quel momento in poi il mio successo è cominciato a scemare. In Italia. Perché fuori tutto è continuato. Nel 1972 ebbi un trionfo all’Olympia di Parigi. E ho continuato a girare per il mondo”.
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