Isabelle Huppert: “Cancel culture? Giusto dibattito ma un aspetto è superfluo. Non sono antipatica inseguo un desiderio”. Isabelle Huppert sulla cancel culture e non solo, la 70enne attrice francese, tra le più premiate della storia del cinema, si racconta in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
[…] All’apertura generata dalla liberazione della parola si contrappone la chiusura della “cancel culture”. La influenza il dibattito in corso?
“È un dibattito interessante, ma trovo che si spinga troppo in là se si arriva alla conclusione che non si possono più guardare i film di Godard o non si può più mettere in scena Cechov. La questione andava aperta, ma non si può mettere tutto in discussione così. Io porto Cechov a Taiwan e ne sono molto contenta”.
[…] Lei sa meglio di tutti noi quale sia il potere del cinema sull’immaginario. Ha riflettuto sui contenuti politici della Syndacaliste in un momento in cui il caso viene riaperto sui giornali e il conflitto sociale è infuocato?
“No, ho certamente pensato che era una storia ispirata a eventi reali. Ma il cinema è più importante di tutto, anche della politica, per questo sono benvenute le zone d’ombra. Altrimenti avrebbero fatto un documentario e non avrebbero avuto bisogno di me. A me interessava prendere la storia vera, la persona vera e trasformarli in puri oggetti cinematografici. Questa donna per me non è una femminista, non è un politico, non è un simbolo, vuole “solo” salvare i posti di lavoro di 50mila persone. Che è comunque un bel po’! Chiaramente il contesto è ancora più bruciante ora con tutto il dibattito sul nucleare in Francia, ma non è questo che mi interessa”.
Anche qui ci si interroga sui contorni della “vittima”.
“Ma la sindacalista non vuole essere una brava vittima. O meglio, è una buona vittima a sufficienza, non vuole essere impeccabile. Perciò dopo l’assalto mette il rossetto. Il che fa di lei una vittima inaspettata e disturbante. Rifiuta di essere il pretesto per un dibattito femminista”.
Un uomo sarebbe stato trattato in un altro modo, però.
“Va come va perché lei è una donna, questo è sicuro. Per la natura dell’assalto (viene stuprata e marchiata con una A sul ventre, ndr), perché lavora – unica donna – in un mondo maschile, anche se non possiamo ridurla a questo cliché: il pericolo non viene solo dagli uomini”.
Isabelle Huppert: “Cancel culture? Giusto dibattito ma un aspetto è superfluo”
Si è specializzata in ruoli di donne antipatiche…
“Non sono d’accordo”.
Nemmeno quando sono soavi antipatiche come Odette Chaumette? Ozon ha azzardato l’espressione sorellanza…
“No, io inseguo piuttosto il desiderio di aprire la strada alla complessità, alle molte facce della realtà. Senza questo, cinema e letteratura sarebbero arti terribilmente noiose. Nel caso della Syndacaliste è interessante mostrare la doppia pena che le è stata inflitta: aver subito violenza e non essere creduta. In Mon crime, il mio personaggio è quello di una donna completamente impermeabile ai sentimenti e individualista. Non parlerei di alleanza femminile, no”.
[…] Com’è ritrovare sulla scena o sul set i vecchi amici (Fabrice Luchini in Mon crime interpreta il giudice istruttore) o sua figlia Lolita?
“Lavorare con mia figlia è profondamente diverso da ritrovare un vecchio amico o un attore con cui ho condiviso un pezzo di strada, la linea del sangue non ha niente a che vedere con quella dell’amicizia. Ho fatto due commedie con Lolita, ed è stato molto difficile. Alla fine, ci siamo divertite, ma ha funzionato solo quando ci siamo rese conto che condividere il cinema non era niente rispetto a quello che condividiamo nella vita. C’è voluto un po’ per riuscire a trovare il modo giusto di lavorare insieme perché all’inizio, per l’imbarazzo, continuavamo a ridere”.
[…] È una combattente? Lotta per avere un ruolo?
“No, sono troppo pigra. L’unica cosa per cui lotto è tenere viva la mia curiosità”.
Difficile credere sia pigra. Si immagina mai senza lavoro?
“Ma io mi fermo, faccio vacanze come tutti. Quest’anno c’è molto teatro, sto recuperando cose accantonate a causa della pandemia. Ho portato dappertutto Il giardino dei ciliegi diretto da Tiago Rodrigues, poi sarà la volta del monologo di Bob Wilson (Mary Said What She Said, al Théâtre de la Ville di Parigi dal 13 aprile, ndr). Ho dovuto ripassare tutti i copioni. Ma non sento che lavoro costantemente. E anche se fosse così è un lavoro molto facile da fare il mio”.
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