Sylvester Stallone: “Italia? La amo soprattutto per un motivo. In Tulsa King vi racconto dei boss che ho incontrato”. Sylvester Stallone su Italia, la fiction Tulsa King e non solo, l’attore statunitense, 76 anni, parla di quella che definisce una nuova sfida in una intervista a ‘Tv Sorrisi e Canzoni’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Sylvester, per prima cosa ci parli di questo nuovo lavoro, “Tulsa King”.
«Negli Stati Uniti principalmente esistono due tipologie di persone. Chi vive sulla costa Est è più elegante, in giacca e cravatta, molto preciso. Chi invece vive sulla costa Ovest, ha un carattere più duro, come quello dei cowboy di una volta. “Tulsa King” mescola questi due retaggi: il mio personaggio, infatti, è un mafioso dell’Est, di New York, che esce di prigione e viene mandato a Tulsa, in Oklahoma (verso ovest, nel cuore degli Stati Uniti, ndr). E qui assistiamo a un vero scontro culturale».
Il suo personaggio si chiama Dwight “The General” Manfredi.
«Mi dica, quanti italo-americani conosce che si chiamano “Dwight” […] Il nome gli è stato dato dai genitori in onore di Dwight Eisenhower, il grande generale, poi Presidente, che guidò l’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale. Il mio Dwight è un uomo tradito: è stato in prigione per 25 anni, ha tenuto la bocca cucita. Adesso finisce, per decisione dei suoi nuovi capi, in mezzo al deserto e a gente vestita da cowboy. E vuole rivalersi».
[…] Questa è la sua prima serie tv da protagonista.
«Lo so di dire una banalità, ma a una certa età hai bisogno di sfide. Io potrei dirmi: “Vai a riposarti e a pescare”. Oppure: “Provaci ancora”. E l’ho fatto. Ammetto che è stato un lavoro massacrante. Il copione era di 435 pagine! Abbiamo girato per sei mesi in Oklahoma, lontano da casa, con un tempo terribile. Ho vissuto in una camera d’albergo: uscivo solo per andare sul set, non sono mai stato al cinema o al ristorante».
Sylvester Stallone: “Italia? La amo soprattutto per un motivo”
[…] C’è un film o una serie tv sul mondo della criminalità che l’ha ispirata?
«Sui gangster ci sono magnifici classici come quelli di Francis Ford Coppola o Martin Scorsese. Ma anche tanti titoli proprio brutti, in cui i mafiosi sono banali: grossi, cattivi, volgari. Io invece li ho conosciuti davvero certi personaggi, da ragazzo, a Filadelfia nel mio quartiere. So benissimo come si comportano, come parlano e come si muovono. Quindi più che a un film, mi sono ispirato a quello che sapevo».
Cosa ne pensa della rivoluzione portata agli spettatori dalla tv in streaming?
«Che è la miglior cosa che potesse succedere! Noi abbiamo ancora negli occhi i film di una volta, ma oggi tutto è diverso. Quella magia è scomparsa. Le faccio un esempio: “Rocky” (per cui Stallone ha in corso una disputa legale per vedersi riconosciuta una parte dei diritti, ndr) verrebbe bocciato da qualunque produttore».
Ma “Rocky” è una vera leggenda…
«Sì, ma la storia di un piccolo pugile italoamericano, povero, un po’ ignorante, non interesserebbe davvero a nessuno. I soli film che funzionano oggi sono quelli fantasy, pieni di effetti speciali. La mentalità è cambiata, l’economia è cambiata».
Intanto l’Italia la ama sempre moltissimo.
«E anche io amo lei. Ricordo quando qui ho girato “Cliffhanger”: eravamo sulle Dolomiti, un posto meraviglioso. In questi giorni sono anche stato al Gran Premio di Monza, era da qualche anno che non seguivo una corsa automobilistica in Italia».
Si è divertito?
«Moltissimo. Quello che mi sorprende, a differenza delle corse automobilistiche americane, è che da voi in Italia è quasi un rito religioso, c’è un’aura sacra. Anche perché se ci pensi, da noi, tu sei lì, guardi la macchina che sfreccia e poi aspetti un minuto e mezzo che ripassi sfrecciando nello stesso modo. Invece i tifosi italiani hanno passione, bevono la loro birra, stanno lì, si divertono. Incredibile».
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