Cabrini: “Maradona? Con lui in campo ci andavano pesante. La Juve mi diede un’auto blindata per paura dei sequestratori”. Antonio Cabrini su Maradona e non solo, l’ex calciatore si racconta ripercorrendo le tappe più significative della sua vita privata e professionale in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Cabrini, quando ha cominciato a giocare a calcio?
«Da bambino. E con me, a quattordici anni, su quel prato di Cremona c’era anche Cesare Prandelli. Sono cresciuto con il pallone e così anche le mie amicizie più care. Cesare è il primo».
Papà Vittorio, però, la voleva nell’azienda di famiglia, è così?
«Faceva l’agricoltore, una persona generosa e altruista. Non mi chiese mai direttamente di rinunciare al pallone, però so che faceva telefonate qua e là, all’allenatore, per esempio, con cui si informava sui miei reali progressi».
[…] Una mamma complice?
«Be’ per anni lei ha risposto personalmente alle centinaia di lettere che arrivavano a casa».
Cabrini: “Maradona? Non gli ho mai visto fare scorrettezze”
[…] Ma la sua bellezza era leggendaria.
«A casa arrivavano migliaia di lettere. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale».
E sua madre ha risposto a tutte?
«No, in casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell’immondizia, pieni di lettere inevase. Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più».
Le mandavano anche dei souvenir?
«A un certo punto ci ritrovammo con una specie di museo in casa: trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli».
Lei è stato una «bandiera» della Juventus e della Nazionale. Simbolo di una solidità difensiva che è importante in una squadra. Qualche volta, l’essere associato con insistenza (come in questa intervista!) alla bellezza fisica le ha dato fastidio?
«Ma no, con i compagni ci si divertiva anche per questo. Una volta andammo a inaugurare uno stadio a Campobasso. Arrivammo con il pullman, figuriamoci se si poteva parlare di servizio d’ordine. I miei compagni decisero di farmi andare in avanscoperta per farsi quattro risate e così mi buttarono giù quasi di peso: nei circa cinquecento metri dal parcheggio all’albergo ho perso la camicia, mi hanno strappato parte dei pantaloni e mi sono ritrovato con le mani piene di catenine d’oro».
Cabrini: “La Juve mi diede un’auto blindata per paura dei sequestratori”
[…] E quale ricordo conserva, oggi, di quella Juve a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nella quale lei è stato anche capitano?
«Una grande avventura prima di tutto umana. Vede, io sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto. Per esempio, a essere più sobrio: ieri come oggi Torino è la città ideale per un calciatore, perché anche se ti riconoscono per strada, la ritrosia sabauda impedisce loro di fermarti e chiederti un autografo o una foto».
Ma Torino, in quegli anni, aveva ben altri nodi: le proteste sindacali, il terrorismo. Voi calciatori eravate comunque già ben pagati: siete stati mai contestati?
«Un punto interessante: i cancelli di Mirafiori e il campo dove noi ci allenavamo erano vicini. Io tante volte sono passato da solo con la macchina in mezzo ai picchetti di protesta. Eppure non ho mai avuto nessun problema. Mi sono fatto l’idea che quegli operai ci abbiano sempre considerati simili a loro. Tutti eravamo alle dipendenze di un’azienda molto potente e dunque vedevano in noi dei lavoratori. Certo, privilegiati rispetto a loro, ma sempre lavoratori».
E la società che atteggiamento aveva?
«Le faccio un solo esempio che spiega tante cose. Io stesso ho avuto una situazione difficile, perché ad un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”».
Boniperti è quello che vi voleva tutti ammogliati nel più breve tempo possibile?
«Sì, era convinto che il matrimonio ci avrebbe dato stabilità e solidità, ma, anni dopo, ha confidato a mia moglie Marta che aveva sbagliato tutto: “La maggior parte di quelli che si sono sposati giovani oggi sono separati”, ammise».
Cabrini: “Maradona? Con lui in campo ci andavano pesante”
Una prima moglie, Consuelo Benzi, i due figli Martina e Eduardo, la moglie attuale, Marta Sannito. Non sembra una vita scapestrata.
«Non lo è, anzi. Ma sono cresciuto in una squadra importante in un periodo in cui il calcio non era ancora spettacolo, bensì sport. E i valori dello sport venivano coltivati, protetti. La disciplina, la lealtà in campo, lo spirito di gruppo. Tutto questo c’è anche oggi, certo, però le voglio raccontare un episodio legato al celebre Mondiale dell’82 in Spagna, quello vinto dall’Italia».
[…] È vero che Gianni Agnelli vi telefonava alle sei del mattino?
«Eccome. Chiamava soprattutto Platini, ma una volta chiamò anche me e io non ricordo nemmeno che cosa risposi. Ma vorrei dire una cosa: Agnelli non era soltanto il proprietario della squadra, era un uomo che di calcio capiva davvero e che sapeva tenere certi equilibri. Platini lo scelse lui, così come anche altri. E ci teneva moltissimo alla squadra: un giorno lo vidi arrivare al campo di allenamento seguito da un uomo non tanto alto e ben vestito. Lo riconoscemmo poco dopo, era Henry Kissinger. Al campo l’Avvocato portava intellettuali, imprenditori, grandi protagonisti di quella che era la geopolitica dell’epoca: una visione molto lungimirante non tanto della squadra, quanto del calcio nella sua interezza».
[…] Com’ era Maradona fuori dal campo?
«Un ragazzo dolce e disponibile, è stato quello che si è caricato addosso tutte le problematiche della squadra e della società. Meno male che a me non toccava averci a che fare durante la partita, perché era davvero il più forte di tutti. E anche corretto: in campo con lui ci andavano molto pesante, ma io non gli ho mai visto fare scorrettezze evidenti».
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