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Spettacolo

Gianni Minà: “Carriera? Ho un solo rimpianto. In pandemia ho avuto paura, poi ho ricordato la lezione di Muhammad Alì”

Gianni Minà: “Carriera? Ho un solo rimpianto. In pandemia ho avuto paura, poi ho ricordato la lezione di Muhammad Alì”. Gianni Minà sulla carriera è non solo, il giornalista torinese, 84 anni, ripercorre le tappe più significative della sua lunghissima carriera, costellata di successi, in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

[…] quella foto memorabile che la ritrae assieme a Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez sta lì a dimostrare una vita-carosello di incontri straordinari. Può dirsi felice a questo punto della sua carriera? E che cosa vuol dire per lei la felicità?
«C’è un uso improprio, anzi un abuso della parola “felicità”. Implica uno stato di grazia che quasi mai si raggiunge. Possono esserci degli attimi, la nascita di una figlia, lo scoop inarrivabile, lo sconcerto di pensare “è successo proprio a me”. Ma se uno si sofferma troppo sulla propria felicità perde di vista gli altri, il mondo. La nostra identità si esprime attraverso di loro, in un rapporto virtuoso.

Invece da troppi decenni ci hanno voluto inculcare la balla che la felicità si raggiungere consumando tutto. Se guardo indietro posso dirmi soddisfatto della mia carriera. Ma non l’ho mai considerata “carriera”. È stata, lo è tutt’ora, parte importante della mia vita, un atteggiamento interiorizzato da quando sono un adolescente, sempre alla ricerca di persone da conoscere, da ascoltare, sempre alla ricerca di fatti cui valga la pena raccontare» .

Nato a Torino, nella sua bella autobiografia, Storia di un boxeur latino (minimum fax), lei rievoca l’esperienza di sfollato a Brusasco.
«Non ho molti ricordi, perché ero piccolo. Ma ho imparato a ricordarli soprattutto attraverso mio fratello, poco più grande di me, il cui breve sequestro di mia madre lo ha ferito nel profondo. Mi è rimasta la paura, l’orrore per i gesti violenti. Non so gestirli, né ho mai reagito ad attacchi verbali. Non riesco, mi blocco. Ma sono immune dal risentimento. Se dovessi pensare all’unica qualità che ho, è proprio questa, non provare risentimento. Ho visto troppe persone consumarsi dalle amarezze».

Gianni Minà: “Carriera? Non l’ho mai considerata tale”

[…] i formidabili anni Sessanta.
«In una taverna romana, eravamo io, Toquinho, Ungaretti e Vinícius de Moraes. Ungaretti recitava poesie con la sua voce di cartavetrata. Poi continuava Vinícius, in portoghese. Erano cene interminabili. Ungaretti era già vecchio ma, accanto, aveva sempre belle donne. João Gilberto, invece, lo avevo visto suonare per la prima volta al tendone della Bussola. Tra gli spettatori fissi che ogni sera venivano a osannarlo c’era anche Gianni Agnelli, l’avvocato. D’estate si finiva in Versilia perché da lì passavano i più grandi campioni della nuova musica, dal rock’n’roll al samba, ma si viveva anche delle trovate estemporanee di Franco Califano, er Califfo, pronto a dare lezioni sul come conquistare una donna attraverso i versi di una canzone e non solo».

Qual è stata la più grande lezione che lei ha tratto dalla vita e dalla sua amicizia con Muhammad Alì?
«La sto vivendo sulla mia pelle: sono vecchio e con acciacchi più o meno seri che mi hanno complicato la vita. Non vedo più tanto bene, faccio molta fatica a leggere, ma continuo a farlo, a studiare, a scrivere. Mi sono fermato psicologicamente durante la pandemia, pensavo fosse una disgrazia insopportabile accaduta proprio a me.

Poi semplicemente, mia moglie Loredana mi ha fatto ricordare la lezione di Muhammad Alì, che quando passava a Roma ci veniva sempre a trovare con la sua Lonnie. Lui, “the greatest”, il più grande, colpito proprio nella parola che aveva usato così mirabilmente per difendere i diritti civili della sua gente diceva spesso: “Ho ricevuto così tanto dal mio Dio che neanche questa malattia può minimamente pareggiare quello che ho ricevuto da Lui”. In fondo, è così pure per me. Sono state quindi le parole di Muhammad Alì a farmi trovare un modo altro, diverso per continuare la mia professione di giornalista. Anzi, ora ho imparato ad ascoltare di più e meglio».

[…] Lei ha vissuto i concerti epici.
«Mi ero perso Woodstock, non potevo perdermi Wight (edizione 1970, ndr). Il biglietto d’entrata costava solo tre sterline. Solo tre sterline per Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen… Nella notte avevo visto l’esibizione dei Doors e sentito Jimi Hendrix interpretare prima If 6 Was 9 e poi stravolgere con la sua chitarra l’inno americano. La sera dopo l’intervento di Jimi Hendrix, Georgina (la prima moglie di Minà, ndr) era venuta trafelata a dirmi: “Dietro le quinte c’è un nero che si sente male. Cercano un’automobile, possiamo prestargli quella che abbiamo affittato noi?” Era proprio Jimi Hendrix. Sia per lui che per Jim Morrison sarebbe stata l’ultima esibizione».

Gianni Minà: “Carriera? Ho un solo rimpianto”

[…] Una carriera è fatta anche di occasioni mancate, passi falsi.
«Ancor più rimpiango la mancata intervista a Nelson Mandela, dove ci rincorremmo per due anni e poi non se ne fece più nulla».

Mina è ancora una sua grande amica?
«È una persona amabile, adorabile. Con una personalità e sensibilità fuori dagli schemi. Ci conosciamo dal ’61, non ci frequentiamo più da tempo e fino a prima della pandemia ci sentivamo al telefono, ma l’affetto e la stima rimangono immutabili. Un’artista, a parer mio, inarrivabile. Si è ritirata molto presto, ma ha saputo rimanere nell’immaginario collettivo degli italiani, vestita solo dell’interpretazione dei suoi brani che periodicamente ci regala. Solo di Mina, di Chico Buarque de Hollanda e di Joan Manuel Serrat ho tutti i dischi. In questo periodo sto riscoprendo le loro meravigliose sonorità e la mia collezione di più di duemila lp che non ho mai avuto il tempo di ascoltare».

Com’era Pasolini? Lei ha raccontato che nel calcio picchiava duro.
«Pier Paolo era appassionato di calcio, giocava con passione senza risparmiare o risparmiarsi nulla, come ha sempre fatto vivendo la sua vita. Io lo considero più di uno scrittore, un poeta che ha scritto testi profetici, sulla società e il ruolo della televisione. Mi colpì profondamente lo scempio del suo corpo, le foto mostrate. Mi ricordarono subito quelle del Che Guevara, che, come un moderno Cristo, fu fotografato subito dopo la sua uccisione con intorno i suoi assassini soddisfatti dell’esibizione del loro trofeo».

[…] Maradona. Se dovesse riassumere questo personaggio senza confini in poche parole?
«Insieme a Pietro Mennea è stato un dolore immenso la notizia della sua morte. Mi ha concesso il privilegio di attraversare ombre e luci della sua vita. Non l’ho mai giudicato, perché non è questo il compito che ci si deve aspettare da un giornalista. Ho tentato di raccontarlo nella maniera più aderente possibile. Con mia moglie Loredana abbiamo deciso di distruggere parte del materiale filmico riguardante le sue sedute dallo psicologo che mi aveva fatto filmare a forza».

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