Claudio Santamaria: “Criminali nei film? Noi meglio degli Usa per un aspetto. C’è una frase nella serie unisce punti”. Claudio Santamaria sui riminali nei film, l’attore parla della serie ‘L’Ora – Inchiostro contro piombo’, in onda da mercoledì 8 giugno, in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Pensa sia sbagliato raccontare storie che hanno per protagonisti dei criminali?
«Credo che ci sia molta fascinazione per loro. Detto questo, di personaggi negativi ne ho fatti anche io e il male va raccontato, al cinema o in tv. Ma quando diventa fine a sé stesso o, peggio, quando la violenza viene giustificata allora è rischioso».
A cosa si riferisce?
«Penso ai tanti film hollywoodiani, ad esempio, in cui all’eroe cosiddetto buono sterminano la famiglia e quindi lui sembra di colpo avere tutto il diritto per fare una strage e ammazzare i suoi nemici con fucili, mitra e pistole. Noi raccontiamo veri eroi, che hanno messo a rischio la loro vita per amore di due concetti sacri: giustizia e verità. E lo hanno fatto usando solo la parla come arma, arma salvifica che accende le coscienze e fa luce».
Lei quando si è sentito coraggioso?
«Il coraggio si manifesta anche nelle cose piccole. All’inizio della mia carriera mi è stato detto: sei bravo ma non potrai mai lavorare nel cinema, non hai la faccia giusta. Ecco, se avessi mancato di coraggio allora, mi sarei fermato a quel giudizio. Per fortuna non l’ho fatto. In generale però penso ci voglia coraggio proprio per fare il mio mestiere: devi metterti in gioco costantemente e accettare dei no. Ora ho sentito storie terribili per cui si iniziano a scegliere giovani talenti in base al numero dei follower. Io credo ancora che serva studiare, ma forse anche questo è un atto di coraggio: il desiderio di un successo facile rende sia l’arte che gli artisti più piatti».
Claudio Santamaria: “Criminali nei film? Noi meglio degli Usa per un aspetto”
Sua moglie, Francesca Barra, è giornalista: l’ha aiutata a comprendere meglio certe dinamiche di redazione?
«Moltissimo. Lo ha fatto doppiamente perché si è spesso occupata di mafia, sia nelle sue inchieste che nei suoi libri. Lei, con il regista Piero Messina, mi ha aiutato anche nel costruire la personalità di questo direttore, un po’ rude: non ha tempo da perdere, essendo preso dalla sua missione».
Il suo direttore non è siciliano: ha un ruolo?
«Certo, essere esterno a un sistema aiuta a comprenderlo. Nella serie gli viene detta una frase: la verità è come la nebbia, più ti ci avvicini e più non vedi nulla. Lui, essendo alla giusta distanza, è riuscito a connettere tutti i punti, collegare gli omicidi e farli risalire a un’unica grande mano».
La lotta alla mafia, però, non è finita.
«E ancora oggi ci sono tanti giornalisti impegnati a farlo, magari anche in realtà locali, senza grandi riflettori. Ma rischiano. Credo che questa serie sia importante anche perché racconta il valore del giornalismo, che forma le coscienze prese ormai a schiaffi da mille stimoli. La confusione è un’arma che si dà alle organizzazioni criminali. Informare è una battaglia sempre più dura».
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