Ermal Meta: “Con dittatura in Albania non potevo guardare la Tv. La prima volta che ho visto due persone baciarsi…”. Ermal Meta sulla dittatura in Albania negli anni novanta, il cantautore e compositore parla della sua infanzia durante il comunismo nel suo Paese in una intervista a ‘Vanity Fair’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
Perché ha scelto di esordire con un romanzo?
«Volevo evitare di parlare di me. Se Vasco racconta la sua storia va benissimo, lui può, ma io sento di dover ancora vivere qualche anno prima di scrivere un libro di memorie. Io volevo dire qualcosa che aveva a che fare con le mie radici, il mio Paese di nascita. Volevo dare una motivazione a quelle immagini che abbiamo negli occhi, quelle dell’esodo degli albanesi del 1991».
[…] Che cosa non sappiamo della storia dell’Albania?
«La caduta del regime tra il 1990 e il ’91 ha lasciato un vuoto politico e sociale immenso, non c’era più un ordine, uno Stato, tutti cercavano di scappare. Subito dopo l’apertura dei confini chi poteva si è precipitato verso una vita migliore, un futuro, cosa che durante la dittatura era impensabile».
Lei ha lasciato l’Albania nel 1994, che cosa ricorda del comunismo?
«Ho tante immagini in mente. Fare la spesa con le tessere annonarie, con cui potevi avere la razione di pane e altri alimenti a giorni fissi. Ovunque statue e quadri che raffiguravano i potenti del regime, soprattutto il dittatore. Per le strade cartelli con gli slogan comunisti: morte ai nemici del popolo! I bunker. Pochissime macchine per strade, c’erano le carrozze con i cavalli. E poi questa demonizzazione dell’America, che nel linguaggio comune era sinonimo di caos. Quando morì il dittatore, mi ricordo le persone in lacrime che dicevano spaventate: adesso qui diventerà America».
Ermal Meta: “Con dittatura in Albania non potevo guardare la Tv”
Dentro casa si criticava il regime?
«Non se ne parlava mai. Da piccolo non ho mai sentito parlare male del regime in famiglia, era una cosa troppo pericolosa, c’erano spie dappertutto e un bambino ripete ciò che sente in casa fuori».
Che cosa sapeva dei bambini coetanei che vivevano in Occidente?
«Niente. Eravamo tagliati fuori da tutto. Era vietato guardare la tv italiana, nelle località di mare in realtà si riusciva, ma era pericoloso farlo. Pensi che la prima volta che ho visto due persone baciarsi per strada è stato in Italia negli anni Novanta: sono arrossito, per me era una cosa occidentale».
Che cosa le dicevano del mondo occidentale?
«Ci dicevano che era come un mostro che divorava ogni cosa. La parola che riassumeva l’orrore era “capitalismo”. Quando accadevano cose brutte, gli anziani dicevano: tutta colpa del capitalismo».
Per esempio?
«Una volta, mentre parlava con una sua amica, mia nonna chiede: cosa significa “omosessuale”? Era una parola che non aveva mai sentito. L’amica le risponde: sono due uomini che si amano. Lei: come due fratelli o due sorelle? Come marito e moglie, le risponde l’amica. Mia nonna alla fine dice: è tutta colpa del capitalismo. Quel lavaggio del cervello è riuscito a sopravvivere ancora per molto».
Però c’è stato il grande esodo.
«Sì e insieme alla fuga la rimozione collettiva. Quando i confini si sono aperti, chi è scappato non ha più voluto guardarsi indietro, nessuno ha avuto voglia di ricordare certe brutture del passato: erano tutti proiettati verso il futuro».
Oggi che cosa le manca dell’Albania?
«Il bjrek. Una sorta di pastasfoglia con riso e spinaci. Ogni volta che torno chiedo a mia nonna: fammi subito quello che sai tu».
Una cosa che non le manca per niente?
«Il traffico di Tirana».
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