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Salute

Vivere nei quartieri con fast food aumenta l’incidenza di una malattia: la scoperta

Vivere nei quartieri con fast food aumenta l’incidenza di una malattia: la scoperta. Uno studio, pubblicato sul Journal of American Medical Association Network Open, dimostra che negli Stati Uniti vivere nei quartieri con una maggiore disponibilità di fast food, potrebbe essere correlato a una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2.

Gli scienziati della New York University Grossman School of Medicine, hanno analizzato il legame tra la presenza di fast food e la possibilità di sviluppare diabete di tipo 2, malattie cardiache e alcuni tipi di cancro. Il team, guidato da Rania Kanchi, ha utilizzato dati relativi a oltre 4mila veterani abitanti in diversi stati americani.

I ricercatori hanno valutato i fast food e i negozi di alimentari presenti nella zona di ogni soggetto in base alla tipologia dei quartieri, contraddistinti in quattro diverse categorie: urbani ad alta e bassa densità, suburbani e rurali. Gli autori hanno poi considerato l’incidenza di malattie croniche nella coorte di studio.

Vivere nei quartieri con fast food aumenta l’incidenza di diabete tipo 2

Come riporta Agi, dalle indagini emerge che i residenti dei quartieri ricchi di fast food, sono più frequentemente associate a un rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Mentre la presenza di supermercati sembra ridurre il pericolo di incorrere a problematiche di salute legate al diabete.

“Abbiamo considerato una coorte molto generalizzabile dal punto di vista geografico, i veterani sono stati seguiti per una media di cinque anni e mezzo. In questo periodo, al 13,2% dei soggetti è stato diagnosticato il diabete di tipo 2. Comprendere al meglio la relazione tra la disponibilità alimentare di un quartiere e le malattie croniche degli abitanti che lo abitano, è fondamentale per attuare politiche di prevenzione mirate ed efficaci”, spiega Kanchi, uno degli autori.

“Come limite del lavoro  abbiamo utilizzato una coorte di soli veterani, una fascia di popolazione soggetta a determinati bias di genere, età, nazionalità, etnia e abitudini di comportamento. Sarà pertanto importante in futuro valutare la possibilità di generalizzare i nostri risultati anche al resto della popolazione”, aggiunge Lorna Thorpe, collega e coautrice di Kanchi.

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