Silvio Orlando: “Io discriminato perché napoletano. Da ragazzi abbiamo sentito un peso insopportabile”. Silvio Orlando si racconta in una lunga intervista rilasciata a ‘Vanity Fair ‘, dove ripercorre alcune tappe della sua carriera e rivela un pessimo trattamento ricevuto agli esordi. Ve ne proponiamo alcuni passaggi
Fa l’attore da una vita.
«È un lavoro tutto basato sul piacere agli altri, gli attori sono un concentrato di insicurezze».
E lei?
«Io sono il monumento alle insicurezze».
Nasce da qui la voglia di fare l’attore, di affermarsi?
«Stavo cercando il mio posto nel mondo e salire su un palcoscenico mi ha fatto capire che quel mestiere mi procurava subito un consenso, sentivo che era la cosa che dovevo fare, riduceva le distanze dagli altri, mi permetteva di stare dentro a un consesso».
[…] A 64 anni e con una carriera come la sua, come potrebbe finire all’improvviso?
«Può finire in tanti modi».
Ha paura di passare di moda?
«I gusti cambiano, le generazioni pure, magari arriva un attore più carismatico di te, e poi c’è questo maledetto largo ai giovani!».
Lei però è molto amato dal pubblico.
«È l’aria rassicurante, credo».
Quindi?
«Niente, le insicurezze non passano. È come alimentare un animaletto che hai dentro, che si adegua in mille varianti. Alla fine se fai l’attore, quando non ci sei nessuno avverte la tua mancanza. È il famoso dimenticatoio, che mi sono sempre immaginato come stare dentro un pozzo profondo pieno di rane».
Ha avuto tanti riconoscimenti.
«Sì, ma lo scatto di dire: “Lei non sa chi sono io”, non ce l’ho. Piuttosto dico: io non so chi sono io! Anche perché odio l’autocelebrazione. Penso che ognuno debba assecondare ciò che è e io sostanzialmente sono un pigro. Mi piace il lavoro ma non la fatica».
Silvio Orlando: “Io discriminato perché napoletano”
Ha faticato poco?
«Forse ho lavorato meno di quello che avrei potuto, pur riconoscendomi un talento di partenza, che consiste in una certa vibratilità, sensibilità. Alcuni attori hanno il fisico, altri la voce, io ho le orecchie».
Che cosa fa con le orecchie?
«Sento e ascolto tutto. Credo di avere l’orecchio assoluto dell’ascolto degli altri, capisco subito che gioco fanno gli altri e come posizionarmi io. Questa cosa mi fa anche soffrire perché capisco subito quando l’ascolto dell’altro è scadente. E così oggi tutto si riduce a slogan, anche quando devo parlare dei film, alla fine ripeto sempre le solite frasi».
[…] Da quale cliché ha cercato di tenersi alla larga?
«Dal napoletano. Con i colleghi di Napoli, da ragazzi abbiamo sentito il peso della tradizione del nostro teatro in modo insopportabile. Alcuni sono riusciti a dimenticarla, ma a volte è una cosa che ti porta a trovare scorciatoie e ad adattarti alle aspettative».
Silvio Orlando: “Io discriminato da giovane perché napoletano”
È stato tentato?
«La prima forte tentazione è stata la tv, che semplifica tutto. Quando feci un programma con Antonio Ricci, L’araba fenice, io gli chiedevo: ma come devo farla questa scena? E lui: tu non preoccuparti, fai il napoletano».
Il napoletano simpatico?
«Il napoletano tutti lo amano ma a distanza, perché crea sempre apprensione: l’altro cliché è il napoletano furbo che ti frega, che ti ruba il portafoglio».
Lei ha subito questo pregiudizio?
«È una cosa impalpabile ma esiste. Adesso sono un napoletano famoso, quindi considerato perlomeno non scippatore (ride). Oggi si parla di politically correct, di tutelare di più certe categorie di persone più esposte al giudizio, e io lo capisco perché ho provato su di me cosa significa la discriminazione, nel mio passaggio da Napoli a Milano».
Come si difendeva?
«Mettevo in atto tutta un’opera di mascheramento».
[…] Lei è ancora di sinistra?
«Sì, soprattutto sono uno che pensa, ma collocarsi significa escludere un sacco di gente, stesso effetto di un certo tipo di cinema molto schierato».
Lei ha fatto tanto cinema d’autore. Parliamo di Paolo Sorrentino.
«Io ho detto le prime parole scritte da Paolo per il cinema: lui era lo sceneggiatore di un film di Antonio Capuano, Polvere di Napoli, nel quale recitavo. Era un cinema immaginifico che non si poteva fare in Italia senza un predestinato come lui. Poi infatti lui ha creato il suo universo cinematografico, ma per i suoi film non mi aveva mai chiamato. Neppure per La grande bellezza, in cui c’erano tutti tranne me».
Non glielo aveva mai detto che avrebbe voluto lavorare con lui?
«No, no».
Silvio Orlando: “Io discriminato perché napoletano, ho dovuto difendermi dai cliché”
Non si fa? Esiste un’etichetta tra attori e registi?
«Quando parli con un regista, lentamente quel dialogo si trasforma in una muta richiesta. Sempre. È particolarmente angosciante per i registi frequentare gli attori. Ma io li capisco: quando uno deve fare un film tu ingombri l’immaginario a questo disgraziato che fatica a dirti che non ci sarai. E così comincia questo minuetto piuttosto doloroso per l’attore. È la stessa cosa che è successa con Nanni Moretti».
Invece Sorrentino poi l’ha scelta per The Young Pope.
«Forse era disperato».
Ma no!
«Per tutti i colleghi della mia generazione l’inglese è arabo, il mio invece era potabile. Poi il mio personaggio ha conquistato più spazio nella sceneggiatura. Purtroppo».
Perché purtroppo?
«Ero angosciato, perché dovevo studiare più battute in inglese. Infatti alla fine era diventata una gag, con Paolo che chiedeva all’aiuto regista: ha già chiamato Silvio? Perché in effetti al telefono lo pregavo di tagliarmi le scene».
[…] Una persona da cui non si separa mai, invece, è sua moglie, l’attrice Maria Laura Rondanini.
«Io la chiamo “Cento passi”, perché appena mi allontano mi chiama, mi chiede dove sono e cosa faccio. In 21 anni saremo stati separati un mese. Forse è un modo morboso di vivere il rapporto ma è il nostro».
È faticoso?
«Quando non stiamo insieme sento la sua mancanza».
Come mai vi siete sposati a Venezia?
«Avevo appena vinto la Coppa Volpi alla Mostra del cinema e in un’intervista in diretta al Tg5 ho detto che ci saremmo sposati lì, a Venezia, il mese dopo. Non c’era niente di programmato in realtà. Volevo farle una sorpresa».
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