Lello Arena si racconta: “Attore per reazione, mi spinsero giù per le scale. Ho un rammarico per Troisi”. L’attore napoletano Lello Arena ripercorre alcune tappe della sua vita privata e professionale in una intervista a ‘Il Corriere della Sera’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.
La sua di famiglia è nata quasi per caso…
«Sì, mio padre Ugo prima di partire per la guerra si era fidanzato con una bella ragazza bionda e mentre si trovava in Abissinia le mandava i soldi che sarebbero serviti al futuro matrimonio. Ma quella ragazza, pensando forse che papà non sarebbe più tornato dalla guerra, dato che era finito in prigionia, si era fidanzata con un altro, stanziale, e si era spesa tutto.
Quando papà tornò si ritrovò cornuto e mazziato. Ma gli Arena non si perdono d’ animo: aveva saputo che ai reduci venivano assicurati posti di lavoro e ne trovò uno alla manifattura tabacchi. Proprio là conosce mia madre, alla quale quell’ ex soldatino piaceva tanto e fu proprio lei a fargli la proposta».
Davvero?
«Sì, una bella faccia tosta, data l’ epoca. Il fatto è che nel quartiere si era saputa la faccenda della precedente fidanzata e mamma gli disse: non sono bionda, sono mora e non mi mangio i soldi degli altri, ci facciamo compagnia? Si sono sposati e sono stati insieme tutta la vita».
Lello Arena si racconta: “La mia famiglia nata per caso”
È stato educato dalle suore e voleva fare il chierichetto. Dove nasce la passione attoriale?
«Forse dal fatto che mi prendevano in giro i compagni di scuola. Prima di tutto per il mio cognome: Arena significa sabbia, e mi avevano soprannominato Lello Sabbia… poi, per il mio strabismo, mi chiamavano “occhiestuorte”.
Pian piano, la mia è stata una reazione, recitavo un ruolo, lo strabismo un marchio di fabbrica, una piccola diversità che mi ha reso riconoscibile al futuro pubblico… Ma la volta che mi spinsero giù dalle scale non recitavo…».
Lello Arena si racconta: “Il mio calvario col piede gonfio”
Cosa accadde?
«Un compagno voleva vedere che effetto faceva uno che ruzzolava giù. Arrivo fino all’ ultimo gradino e, lì per lì, non avverto grande dolore. La notte, però, comincia a gonfiarsi il piede, alle tre del mattino sveglio mio padre. Decidiamo di andare al Pronto soccorso, ma non avevamo la macchina, a quell’ ora i taxi non c’ erano, trovammo in strada una carrozzella di quelle che accompagnano i turisti sul lungomare.
Il cocchiere ci fa salire ma, per raggiungere il Cardarelli, c’ è una salita ripida: il cavallo scivola e stramazza. Il cocchiere ci fa scendere e noi proseguiamo a piedi. Io camminavo a fatica, quando arriviamo l’ ospedale è chiuso.
Bussiamo, ci apre una suora addetta alle medicazioni notturne, che fa appena in tempo a farci entrare e scivola sul bagnato… tutti gli aghi, le siringhe, le bottigliette di medicinali finiscono a terra, un casino. Lei ci urla di andare a cercare il medico di guardia: bussiamo alla porta, quello dormiva… bussiamo di nuovo, poi mio padre spinge la porta e il medico, che intanto si era svegliato e stava per aprirci, riceve una portata in faccia, gli esce sangue dal naso, ci urla di andare da un altro medico.
Era il primario che, sentendo le urla e vedendoci mi chiede incavolato cosa avessi. Gli faccio vedere il piede e lui mi domanda: lo puoi poggiare a terra? Io rispondo di sì. E quello, urlando: allora cammina e andatevene! Avevamo compiuto una strage ed era stato tutto inutile».
Lello Arena si racconta: “Così è nata La Smorfia”
[…] Come nasce La Smorfia con Massimo Troisi ed Enzo Decaro?
«In verità, la nostra prima formazione si chiamava I Saraceni, ma quando venimmo a Roma, ci consigliarono di cambiare il nome. Ce ne voleva uno meno localizzato, più nazionale e legato al nostro mestiere. Nel lavoro dell’ attore la mimica facciale è fondamentale, da qui La Smorfia. Ci divertivamo da matti: io ero il più brutto e giocavo sulla mia diversità. Enzo, il più bello: a teatro le prime file erano gremite dalle signorine che venivano per lui».
Tanti successi insieme, a teatro, in tv e al cinema. Poi la prematura scomparsa di Troisi.
«Il mio più caro amico, una persona sensibile, delicata, una bella mente. Nelle sceneggiature lui mi assegnava il ruolo e poi ci lavoravamo assieme, con lui era un gioco continuo…».
Tra voi mai incomprensioni?
«Sì, ci fu un periodo di rottura sul set di un film “Le vie del Signore sono finite”. Dovevo interpretare un personaggio, un paralitico, poi affidato ad altro attore. Ne avrei dovuto fare un altro, ma la troupe insisteva che dovevo fare proprio quello e Massimo Troisi credette che fossi io a insistere per il ruolo, che tramassi alle sue spalle. Non era vero… Negli anni seguenti, tra una telefonata e l’ altra, ci riconciliammo e ho un rammarico: averlo lasciato troppo solo».
I suoi maestri?
«Peppino De Filippo: non l’ ho mai conosciuto di persona, ma i suoi duetti con Totò erano il mio pane quotidiano. E il grande Eduardo che una volta accolse noi tre nel suo camerino al Teatro Giulio Cesare di Roma e ci chiese: “Voi state ancora a Napoli? Fuitevenne!”. Allora la considerava una città ingrata».
Lello Arena si racconta: “Napoli? Vivo a Roma ma quando ci torno…”
Una città che lei, nel suo libro «Io, Napoli e tu», definisce «una turista». Perché?
«È l’ unica città al mondo che invece di farsi visitare, ti visita, ti costringe a fare il punto su te stesso. Poggia saldamente su migliaia di teschi, testimonianze vere della morte, e poi è rimpinzata di santi patroni. La sua tradizionale accoglienza è mitigata dalla tendenza a non fidarsi degli altri, che sono stati spesso degli invasori. Ormai da tempo vivo a Roma, ma quando torno a Napoli vado sempre in un piccolo hotel a via Toledo, mi affaccio da un balconcino e assisto a scenette straordinarie».
Per esempio?
«Una sera, a ora tarda, vedo un bambino con il suo cane: la bestia si era sdraiata sul marciapiede e non ne voleva sapere di alzarsi per tornare a casa. Il ragazzino non lo strattona, ma comincia a parlargli con dolcezza per convincerlo: ho assistito a un monologo struggente».
Un personaggio che sogna di interpretare?
«Ce n’ è uno che mi perseguita, anzi due. Ogni anno mi propongono di interpretare Falstaff, dicendo “sei perfetto!”, perché non c’ è nemmeno bisogno di mettermi la pancia finta, ce l’ ho di mio. E poi, quando vado a Napoli per le feste natalizie, i ragazzini mi scambiano per Babbo Natale, avendo capelli e barba bianca. Mi rimproverano perché l’ anno prima avevano chiesto il trenino e gli è arrivata la bici…».
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