Mario Biondi si racconta in una lunga intervista dove parla di vita privata e professionale rilasciata ai microfoni della rivista ‘Vanity Fair’
Mario Biondi si racconta: “Io figlio di emigrati. Così ipnotizzo il pubblico. I miei 8 figli la mia prima giuria”. Il cantante siciliano parla di vita privata e professionale in una lunga intervista rilasciata ai microfoni del collega Mario Manca per ‘Vanity Fair’
A breve uno spettacolo, a sostegno del programma Cesvi a protezione dell’infanzia, una realtà che prevede un percorso di tutela per i minori vittime di abusi e trascuratezza e che offre un’alternativa che possa regalare loro un futuro più stabile, una vita più felice.
«Mi piacerebbe che, al di là delle chiacchiere e delle buone intenzioni tramandate sui social, ci fossero più movimenti a sostegno dei bambini».
[…] Il rumore non fa bene e il bene non fa rumore. Un chiaro riferimento alla necessità di sentire certe responsabilità sulla propria pelle in quanto padre di otto figli.
«Non è per niente semplice interagire con loro, ma la cosa più importante che dobbiamo ricordare è che i bambini non sono esseri inanimati o deboli, ma delle persone che devono essere seguite e tutelate. Specie in una società dove c’è un’autoreferenzialità altissima, una delle peggiori malattie che ci sia».
Come si esce da questa autorefenzialità?
«Con intelligenza e con delle guide che, purtroppo, sono andate a perdersi negli anni. Non sono legato a nessuna bandiera e a nessun partito particolare, ma è chiaro che negli anni Settanta, quando parlavi di un uomo politico, ti riferivi all’intelletto, alla cultura, a un esempio da seguire. Una cosa che oggi non c’è più perché mancano i riferimenti: se i mass media ci propinano maleducazione e autoreferenzialità vuol dire che non stiamo trasferendo alle nuove generazioni un’indicazione sana, ma bislacca. Ci vorrebbero meno chiacchiere e più persone referenziate da azioni che hanno un peso».
L’obiettivo rimane, anche grazie a realtà come Cesvi, quello di aiutare i bambini a costruire un’infanzia felice. La sua com’è stata?
«Molto bella, sono stato fortunato. Vengo da una famiglia di emigrati che negli anni Sessanta si era trasferita in Emilia Romagna e poi era tornata in Sicilia, alla casa base. Da quando sono rientrato a Nord nel ’75 ho dei bei ricordi, correvo nei campi e facevo con mamma e papà picnic con le tovaglie da tavola stese sul prato. Era un periodo nel quale, nonostante le problematiche politiche serie che divampavano, si aveva la gioia di vivere».
Il tempo, intanto, passa: ora che i suoi figli stanno crescendo, si ritiene ancora un «super-papà»?
«Rimango un papà apprendista che sta ancora imparando. I figli devono capire che il padre è una persona e, come tale, non è perfetto, Superman o infallibile. I problemi, però, arrivano quando c’è di mezzo una separazione e sembra che ci debba per forza essere un genitore di Serie A e di Serie B, una cosa che crea una grande confusione nelle nuove generazioni. Per farle un esempio, non ho mai sentito mia madre, una donna che aveva vissuto anche lei delle problematiche di coppia difficili, dire “tuo padre è uno stronzo” o “ah, se avessi avuto un’altra persona al mio fianco”. È questione di dignità».
Mario Biondi si racconta: “Io figlio di emigrati. Così ipnotizzo il pubblico. I miei 8 figli la mia prima giuria”
Una dignità che la società di oggi non ha?
«È un qualcosa che avevano le donne e le coppie di una volta e che oggi non hanno quasi più. Un padre che si vanta di aver cresciuto i suoi figli e che fa discorsi tipo “senza di me chissà dove sarebbero oggi” sbaglia in partenza: tu sei padre solo perché questo privilegio te lo dà tuo figlio. Oggigiorno è difficile trovare un equilibrio: l’uomo viene visto dalle donne come un orco per via delle casistiche sulla violenza sulle donne, che è una cosa orrenda, ma, allo stesso tempo, non si parla mai dei suicidi maschili che sono di più di quelli femminili. È un problema della società che dovrebbe essere supportato dalla politica, dalla legge e anche dalla Chiesa che, intanto, è assente».
Torniamo ai suoi figli: ascoltano la sua musica? A marzo 2020 uscirà il suo nuovo progetto musicale che la vedrà impegnato in un nuovo tour che, da Zurigo a Glasgow, arriverà in Italia il 17 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma e il 30 al Teatro degli Arcimboldi di Milano.
«Sono la mia prima giuria. In genere gli faccio ascoltare le mie canzoni in auto: li guardo, li osservo e aspetto. Poi iniziano a chiedermi, ma questa canzone è nuova? E mi domandano con chi l’ho suonata, dove l’ho registrata: quando cominciano le domande, significa che ha suscitato interesse».
Mai arrivata una critica?
«Non me l’hanno mai detto a parole, ma cerco di percepirlo. Ovvio, se gli faccio ascoltare una ballad jazz capisco che i più piccoli si scoccino. I più grandi, invece, è capace che l’apprezzino: Marika, che ha 19 anni, spesso mi fa appunti sugli accordi, sull’armonizzazione delle voci. Ma anche Zoe: adesso loro due fanno le coriste nella tournée di Renato Zero, senza alcun tipo di spinta da parte mia. Tutti gli altri studiano canto, batteria, chitarra: a gennaio Ray inizierà il Conservatorio a Parma. Diciamo che la musica ha sortito l’effetto giusto».
Mario Biondi si racconta: “Io figlio di emigrati. Così ipnotizzo il pubblico. I miei 8 figli la mia prima giuria”
La musica, per certi versi, ipnotizza. Il singolo che anticipa il suo nuovo progetto e disponibile dal 6 dicembre rimanda proprio a questo: si chiama Mesmerizing Eyes.
«È una preview di questo progetto che stiamo sviluppando da diverso tempo e che vedrà la luce il prossimo marzo: c’è voluto molto tempo e impegno per cercare di realizzarlo e sono molto contento del risultato. Soprattutto perché questa canzone d’apertura, questa prima spia d’allarme che segna la mia collaborazione con la talentuosa Olivia Trummer, l’ho realizzata con i miei compagni d’avventura dal 2005, gli High Five Quintet, in grande spolvero».
Com’è stato ritrovare la band dopo tanto tempo?
«È stato bellissimo. Abbiamo cantato insieme per dieci anni ed è come se fosse rimasto un legame che va al dà dei concerti, delle canzoni. È una sorta di fratellanza nella musica».
Torniamo alla parola ipnotizzare: pensa di fare questo effetto sul suo pubblico?
«Chi si mette su un palco e ha la possibilità di incentrare l’attenzione di tante persone su di sé ha un magnetismo che gli viene dato dal pubblico, ma non deve essere un’imposizione. Penso che il magnetismo sia una di quelle cose di cui sono dotato grazie alla passione per la musica: è lei che governa e comanda tutto. L’ultima parola, però, è sempre del pubblico, come una bella donna che insegui da sempre ma, alla fine, è lei quella che decide».
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