Pif: “In Italia non hai la possibilità di sognare”. L’attore siciliano parla del suo ultimo lavoro in una intervista rilasciata ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’
Pif: “In Italia non hai la possibilità di sognare. L’algoritmo mi dà ai nervi. E i guru della tecnologia…”. L’attore e regista siciliano parla del suo ultimo film che parlerà del problema dei Rider, in una intervista rilasciata ai microfoni di Walter Veltroni per ‘Il Corriere della Sera’.
Pif, dopo la mafia hai deciso di occuparti, col tuo cinema, di uno degli altri flagelli del nostro tempo, lo sfruttamento del lavoro precario…
«L’idea era immaginare come sarà il mondo del lavoro fra venti, trent’anni. La degenerazione del mondo del lavoro e non solo. Stiamo attraversando un periodo in cui le app ci danno la possibilità di una serie di servizi che, da consumatori, viviamo come una meraviglia. Il problema è la condizione del lavoratore dietro e dentro questo universo.
Faccio una premessa: io non sono un estremista, cioè non penso, ad esempio, che sia ingiusto lavorare la domenica, però credo sia giusto capire quanto il lavoratore della domenica guadagni. E la stessa cosa vale per le app. Cioè il problema è, come sempre, la distribuzione della torta della ricchezza. Ordinare una pizza è comodissimo con il cellulare, non ti muovi da casa, paghi poco. Ma se tu paghi poco, ci sono altri che pagano.
Una volta lo schema era: io sono precario perché guadagno tanto ma non ho la sicurezza, io sono dipendente guadagno meno ma ho più sicurezze. Abbiamo unito il peggio del dipendente con il peggio del precario: guadagno poco e non ho più sicurezze. Ecco, ho pensato di raccontare questo paradosso e di farlo in forma di commedia».
Il tuo protagonista che lavoro fa?
«Il rider. Lui perde un lavoro classico in un’azienda multinazionale per colpa di un algoritmo che lui stesso ha contribuito a introdurre. A me l’algoritmo mi dà ai nervi. In teoria nasce per facilitarci la vita e invece è diventato, forse all’italiana, un alibi: “Questo non si può fare, lo dice l’algoritmo”. E tu dici “vabbé se l’algoritmo dice così io mi fermo”. È diventato un’ideologia.
E poi non ho mai sopportato questi nuovi guru della tecnologia che ti presentano un telefonino come se fosse il Messia, come se ti dovesse cambiare la vita intera. Per carità, ce l’ha cambiata, eccome. Penso a un ragazzo disabile di oggi che parla con il mondo. Però quando i guru dal palco ti parlano, non vedono te come uno a cui migliorare la vita. Vogliono spremerti, succhiare informazioni della tua vita che trasformano nel loro profitto. E anche quando ti presentano il lavoro, quando dicono “io ho questa compagnia di rider, lavori quando vuoi”, è tutto un bluff perché non è vero che lavori quando vuoi.
Lavori quando loro ti danno la possibilità di lavorare. Se stai male e non lavori o se lavori poco vieni punito. Se piove e non lavori vieni punito e poi lavori sempre meno. In realtà tengono un dipendente con le condizioni di un libero professionista. L’affermazione secondo la quale “tu sei manager di te stesso” è una palla clamorosa. Ma ci vuole qualcuno, come sempre è stato nella storia, che introduca nel nuovo mercato del lavoro regole che garantiscano le persone e i loro diritti. Non lo faranno da sole, le multinazionali. Servono i governi, gli Stati. Non è questa l’essenza della democrazia?».
Ti sembra che gli esseri umani che vivono questa condizione siano sostanzialmente soli? Senza sindacati o partiti che si occupino di loro…
«Eh sì, perché queste nuove tecnologie fanno fatica a riconoscere le figure sociali. Anche perché è stato introdotto un metodo lavorativo da libero professionista. Il professionista storicamente non ha un sindacato, cioè ognuno pensa a sé. Oggi il modello di organizzazione produttiva che ci attrae tanto è proprio spezzettare il mondo del lavoro.
Gli stessi sindacati sono colpevoli perché hanno reagito troppo tardi rispetto alla trasformazione del mondo del lavoro. E questo nuovo mondo del lavoro fa fatica a riconoscere il sindacato. Qual è la soluzione? Io non ce l’ho, però so quello che non si deve fare, boicottare Amazon o cose simili. La storia insegna che è andare contro i mulini a vento. La tecnologia non si ferma. È la democrazia che deve correre veloce. Quindi rimodulare le garanzie, per dare diritti anche in un mondo del lavoro con più flessibilità, rispetto al tempo dei nostri genitori».
Per preparare il film hai parlato con i riders?
«Sì, ho fatto amicizia con uno di Firenze. In una tappa dello spettacolo teatrale “Momenti di trascurabile felicità” l’ho chiamato perché venisse e poi ho detto a questo ragazzo: alla fine sali e racconti la tua battaglia. Sei uno di quelli che sta combattendo per avere diritti, assicurazione, il minimo che uno dovrebbe avere quando lavora. Gli ho detto di vestirsi da rider, con l’uniforme. Appena è salito ho detto: “Scusate, ora devo farvi conoscere una persona”. Lui è venuto sul palco vestito da rider ed è scattato l’applauso. L’applauso istintivo mi fa sperare che la gente abbia capito che questi esseri umani sono davvero i nuovi sfruttati».
Il paradosso: un lavoratore 50enne che perde un lavoro storico deve quasi ringraziare l’opportunità che gli danno questi impieghi precari.
«La mia povera zia Gabriella, che faceva l’assicuratrice, un giorno, quando sognavo di fare il regista sdraiato sul divano a Palermo, mi invitò a salire a Frosinone dicendomi: “Perché non vieni ad aiutarmi? È un lavoro sicuro…”. Il senso era che poi avrei preso l’agenzia, e oggi sarei qui a parlarti della nuova Sara assicurazioni».
A propormi una polizza…
«Feci questo ragionamento: in Italia una volta che hai lavoro, hai il tuo stipendio, come fai a mollare tutto perché vuoi fare dei film, la cosa più precaria nel mondo? E questa cosa è un po’ un dramma. In Italia non hai la possibilità di sognare. Ed è un dramma. Cito sempre quel maledetto e benedetto libro, Il Gattopardo. Nessuno lo ha letto però tutti ci ricordiamo quella famosa frase — “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” — e con quella ci siamo costituiti un alibi di ferro al nostro cinismo e alla nostra rassegnazione.
Io ho fatto una cosa rivoluzionaria per essere italiano: ho detto no al lavoro di zia Gabriella che mi voleva tanto bene e che ringrazio, tramite te. Ho detto no, io voglio rischiare. Però ero ventenne, a 50 anni è più difficile. Cogliamo la possibilità di questa flessibilità per riuscire a lavorare in modo tale che uno a 50 anni possa cambiare professione, come succede negli altri Paesi. Questa è la flessibilità che mi piace, fatta di opportunità di cambiamento e di solide garanzie. La società non reggerà separando troppo poveri e ricchi, garantiti e non garantiti. Sarò ingenuo, ma quando vedi i profitti di queste società o le buonuscite dei manager dici: “Vabbé però forse ad una fetta di torta un po’ ci potresti anche rinunciare”».
Quanto guadagna un rider all’ora?
«Nel film ho cercato di essere un po’ generico, ho voluto ricostruire il loro metodo di lavoro, non nelle cifre, perché il guadagno è vario e anche le assicurazioni. Ci sono alcune ditte che ti danno un’assicurazione sanitaria, altre che proprio ti ignorano, chi ti calcola le spese di manutenzione della bicicletta o del mezzo e chi no. Poi, certo, se lavori sotto la neve, se lavori sempre, anche quando stai male, riesci ad avere uno stipendio di mille, milleduecento euro. Però ti devi ammazzare. Un tempo si chiamava cottimo. Oggi si deve chiamare cottimo».
La precarietà, figlia della flessibilità, è alla base del sentimento di paura che c’è nell’opinione pubblica? Cioè nasce dal fatto che, sentendosi insicuri socialmente per sé e per i propri figli, la reazione più facile è prendersela con qualcuno che, ipoteticamente, porta via ricchezza?
«Sì, quando lo stagno è piccolo, c’è poco spazio per farsi il bagno, il primo ad essere di troppo è quello che non parla la tua lingua. Lì ci dimentichiamo tutti gli impegni morali, i valori cattolici e cristiani. Quando lo stagno è piccolo il primo che ti dà fastidio è quello che non è del tuo colore di pelle. L’aggravante è che spesso non è l’immigrato che ti ruba il lavoro. Io posso sostenere una discussione con chi dice prima gli italiani. Non sono d’accordo, ma parliamone. Il problema è che spesso parli con uno che si basa su numeri completamente inventati e questo rende difficile capirsi.
Al razzista dico che questa loro politica non funziona. Io amo i neri, tu li odi, ok. Applichiamo pure la tua politica, ma vedrai che è sbagliata, non ha mai risolto i problemi che indicava. C’è un solo posto al mondo in cui, anche con i populisti al governo, il problema dell’immigrazione sia stato risolto? La realtà è più forte delle urla».
Con «La mafia uccide solo d’estate» e ora con questo film ti proponi una forma di cinema civile in senso classico o quella che c’era in una certa commedia all’italiana?
«C’è una frase meravigliosa di Ettore Scola che lui non ricordava di aver detto. Stava montando il suo primo film e diceva: “Non so se essere Risi o Rosi”. Geniale, come lui. Io credo che nelle mie storie l’impegno civile sia sempre filtrato dalla commedia quindi, umilmente, penso di appartenere più alla scuola di Scola».
Che titolo avrà il tuo film?
«Si intitolerà “E noi come stronzi, rimanemmo a guardare”».
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