Patty Pravo si racconta in una lunga intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’, dove parla a tutto tondo della sua vita privata e professionale
Patty Pravo si racconta: “Sono stata trigama. La droga da Schifano, le canzoni e i miei 6 mariti”. La cantante ha rilasciato una intervista ai microfoni della collega Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
Come è stata la transoceanica?
«Sono quasi crepata dalla noia: dovevo solo tenere su le vele. I viaggi da sola li ho imparati, poco più che ventenne, negli anni 70, perché, al Cairo, seduta sotto la Sfinge, sono diventata amica di un cammelliere vecchiotto. Mi ha passato una canna, mi ha insegnato i cammelli, mi ha portato nelle oasi. Da lì, ho iniziato ad andarmene per deserti da sola. A Taroudant, in Marocco, arrivo, scendo dal cammello, trovo Yves Saint Laurent e scopro che si cenava in abito da sera. Negli 80, mi sono unita ai tuareg: tre mesi per prendere il sale nell’oasi di Bilma, in Niger, e tornare».
Non aveva paura, unica donna, fra i tuareg?
«No. Quando arrivi fra persone diverse da te, se sei un’anima aperta, ti accolgono. Nei primi anni 90, ho fatto da sola la Via della Seta, ci ho messo nove mesi, ho attraversato due Paesi in guerra. Sono partita dalla Turchia e arrivata in Cina. A Sajnšand, in Mongolia, non avevano mai visto una bionda, mi offrirono persino una casetta. In Cina, ho cantato alla tv in pechinese e mi hanno vista un miliardo e 300 mila persone. Sono rimasta tre mesi, andavo a sentire il rock che era vietato, ma proliferava nei locali. Allora, ho convinto il nostro ambasciatore a fare una serata rock, si sono esibiti giovani bravissimi e ballava anche il ministro della Cultura cinese».
Che libertà prova in quei viaggi?
«È qualcosa che mi si allarga in petto, un piacere diverso che stare sul palco, ma similare: il pubblico, quando canta con te, è come un’anima sola, una botta di solitudine bella che ti arriva».
Al Cairo, che ci faceva sola sotto la sfinge?
«Centoventi milioni di dischi li vendi solo girando: Australia, Giappone… Cantavo e magari prendevo due settimane per me».
In quale suo brano si riconosce di più?
«Forse nella frase “la cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me”».
La prima volta in cui s’è cambiata la vita?
«Bambina, a Venezia. Mi vestivano con l’abito di velluto blu, il fiocco sul collo. Una cosa tragica. Io volevo i pantaloni. Un giorno, tagliuzzo il vestito e i capelli. Tornano i nonni e dico: io mi voglio così. Si misero a ridere».
Deduco che non erano severi.
«Mi hanno dato una libertà che ti obbliga a responsabilizzarti. Mi hanno cresciuta loro: mamma aveva avuto un parto difficile e s’era ritirata in campagna. Nonna ha capito la mia essenza: mi ha fatto dare lezioni di piano a tre anni, poi di danza. A 14 anni, una mattina, invece di andare a scuola, sono andata a fare l’amore. Torno a casa felice. Dico: nonna, nonno, ho fatto l’amore e mi è piaciuto molto, posso tornarci nel pomeriggio? Mi ci hanno mandata».
Negli anni 60, lei era considerata un’icona di trasgressione, parlava di divorzio, libertà sessuale…
«Ero io così. Neanche avevo capito che ci fosse il ’68. Viaggiavo tanto, ero ovunque. Nel ’69, andai alla Nasa dagli astronauti scesi dalla Luna e, in Russia, cantai per l’Armata Rossa».
«La Bambola», nel ’68, passò per inno femminista.
«Io la percepivo al contrario: la parola “bambola” mi dava fastidio. Invece, le donne amarono quel “no ragazzo no, tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più”».
Come diventa «La ragazza del Piper»?
«A 15 anni, finito il conservatorio, andai a Londra a imparare l’inglese. Arrivo, mi dicono che a Roma c’è un locale fighissimo. Con gli amici, parto in macchina la sera stessa. Il proprietario Alberigo Crocetta mi vede, mi chiede se so cantare come so ballare. E io, che a cantare non avevo mai pensato, dico subito sì. Sono salita sul palco, mi è piaciuto. Mi hanno detto che dovevo avere un gruppo, farmi un repertorio. Poi, Gianni Boncompagni scrisse per me il testo di Ragazzo triste e stavo già in giro a far serate».
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