Kasia Smutniak si racconta in una lunga intervista ai microfoni di ‘Io Donna’
Kasia Smutniak si racconta in una lunga intervista ai microfoni di ‘Io Donna’. Me lo faccia dire: questi 40 anni non si vedono.
“Sono fiera delle rughe, esigo che vengano rispettate. Sono felice di questo corpo di donna quarantenne e non voglio che le mie foto vengano ritoccate. Ho aperto Instagram un anno fa come esperimento, non ero sui social. Mi sono accorta che è fantastico, perché è un canale diretto per promuovere quel che faccio, per mostrarmi come sono senza filtri. Seleziono, pubblico. E lascio un pezzo di vita solo per me e la mia famiglia”.
Negli ultimi anni la sua immagine è diventata più femminile. Per il film Loro, di Paolo Sorrentino, si è spogliata. Molte attrici fanno il percorso inverso.
“Sono cresciuta in una famiglia militare, figlia unica di un generale d’aviazione, ero sempre in mezzo ai maschi, ho interpretato anche un maschio (in Moglie e marito, ndr), mi sento femminista. Arrivata a 40 anni mi sono presa la libertà di dirmi: sai che mi piaccio anche sexy? Pensa che cambiamento. Negli anni Settanta noi donne andavamo in giro senza reggiseno. Oggi non solo l’abbiamo rimesso, ma stiamo sempre a ritoccarci, perché non siamo belle abbastanza. E non parlo solo delle attrici. Essere se stessi è rivoluzionario, ma è difficile”.
Visto che parliamo di autenticità, ci dica che cosa mette nella lista dei desideri per i suoi 40 anni.
“Ho sempre fatto le liste, sono importanti. C’è di tutto, dall’andare a nuotare con le balene alle cose da lasciar perdere, alle insicurezze da superare. Cose privatissime. Alcuni obiettivi hanno una scadenza; un anno, la vita. Per me è più semplice ragionare in questo modo”.
Organizza le sue giornate così?
“Ma no, la vita ha i suoi imprevisti. Io non programmo, al massimo arrivo a una settimana. Ho smesso con l’ansia delle vacanze. Deciderò a fine luglio cosa fare ad agosto. E solo al ritorno penserò a festeggiare. Ho 40 anni, ho lavorato tanto, ho bisogno di concentrarmi sulla mia storia. Ma un regalo lo chiedo”.
Quale?
“Dare una mano alla scuola che abbiamo costruito con la Pietro Taricone Onlus a Ghami, un villaggio nel Mustang, in Nepal. Abbiamo deciso di fare crowdfunding, cioè una raccolta fondi per comprare libri, riparare l’edificio, acquistare dei pannelli solari, assumere nuovi maestri per dare la possibilità di studiare ad altri bambini della regione. Sono arrivati i primi computer, a breve ci sarà il collegamento internet. C’è anche il dormitorio da sistemare; dei 56 alunni solo 8 vengono dal paese, gli altri da fuori. Lanceremo la campagna con l’uscita di questo numero di iO Donna. Il regalo che chiedo è un aiuto per questi bambini”.
Lei è molto legata alla scuola, va in Nepal almeno una volta all’anno. Perché proprio là?
“Sono capitata nel Mustang per caso, nel 2003, e ho fatto amicizia con una coppia del posto. Ho cominciato a conoscere questo popolo straordinario che rischia di scomparire, schiacciato tra la Cina e il mondo occidentale, così aggressivo. Gli abitanti del Mustang – poverissimi – sono di lingua e tradizione tibetana, non nepalese. La nostra scuola è l’unica dove, oltre alla lingua di Stato e all’inglese, si insegna il tibetano. Volevo fare qualcosa lì perché potevo farlo. Servono cinque giorni per arrivarci ma per me era quello il posto, si vede che era destino”.
La popolazione come ha accolto il vostro progetto? Non vi ha sentito estranei?
“Non abbiamo mai avuto quel problema, ci siamo inseriti bene. Hanno capito che non sono una che mette i soldi e se ne va. Tra i miei viaggi, ne ho fatto uno con un gruppo di medici agopunturisti franco-americani. Li seguivo tenendo il registro delle visite. Così ho imparato tantissimo sul popolo del Mustang, ho conosciuto le persone. E dopo aver dormito anni per terra, nella cucina dei miei amici costruita con fango e sterco, ho preso una casa in affitto. Sono stata la prima straniera in tutto il Mustang!”.
Perché aprire una scuola e non un ospedale?
“Quando manca tutto, da dove cominci? Ho pensato che fosse utile dare gli strumenti per capire. Ho visto villaggi senza bambini; i genitori li mandavano lontano, dove c’erano le scuole. Ero accanto ai genitori disperati che li salutavano. Non volevo che si ripetesse. Se dai a un bambino la possibilità di istruirsi, scommetti sul futuro della sua famiglia”.
È stato difficile costruire la scuola?
“Ci abbiamo messo tre anni, anche perché potevamo portare i materiali solo attraverso il letto di un fiume, nei tre mesi in cui è in secca. Nel frattempo, nel 2015 c’è stato il terremoto. Ora la scuola è al quarto anno di attività. Da noi l’età dei bambini non conta, volevamo dare a tutti, grandi e piccoli, la possibilità di imparare. Ma il progetto non si sarebbe realizzato senza Kunzom Thakuri, la ragazza che ho conosciuto durante la spedizione con i medici. Era di lì, ha vissuto a San Francisco, è tornata per dedicarsi alla scuola. Io polacca, lei mustangi, ci siamo conosciute a San Francisco. Quando noi donne ci uniamo siamo forti, perché capiamo il valore del nostro sacrificio”.
Ha iniziato a portare a Ghami sua figlia Sophie, che oggi ha 14 anni, quando ne aveva 6. Non era troppo presto?
“Sono fiera di lei. Ha seguito questa follia della mamma fin da piccola. Facevo lo zaino, prendevo le medicine sperando per il meglio: se hai un solo antibiotico e tua figlia si ammala due volte sei nei guai. Non puoi tornare indietro. Quando partivo da sola, avrebbe preferito la sua mamma vicina, certo, non lontana. Ma quando ha visto la scuola in funzione, ha capito”.
Lei è stata sempre molto attenta alla privacy dei suoi figli. Di Sophie e Leone non si sono quasi mai viste foto. Finché, l’anno scorso, Sophie è stata con lei e il suo compagno, il produttore Domenico Procacci, alla Mostra del Cinema di Venezia. Ha cambiato idea?
“È stata Sophie a chiedermelo. Stare tre giorni in un albergo meraviglioso, con i divi di Hollywood nei paraggi, come poteva non attirarla? È stata bravissima. Quella in ansia ero io”.
Lei ha sempre detto di aver ricevuto un’educazione rigida. Con i suoi figli applica la stessa rigidità?
“Credo che nella vita sia importante la disciplina, non la rigidità. Per fare questi viaggi devi essere disciplinato. Sophie l’ha capito, non è il “fallo perché lo dico io”. Se ti dimentichi i calzini, può essere un problema. E guardi che mia figlia è quella precisa, io sono un disastro. I miei genitori mi hanno insegnato la disciplina coniugata alla totale libertà. Ho cominciato a lavorare prestissimo. Ma senza ansia, non dovevo dimostrare niente a nessuno. Ho avuto la libertà di sbagliare e tornare indietro. Però, allo stesso tempo, i miei mi hanno aiutato a credere in me stessa, a pensare che potevo far tutto, anche l’astronauta. Se ce la fa un altro, posso farlo anch’io. Magari non sarò brava allo stesso modo, ma posso riuscirci”.
Astronauta no, però è pilota d’aliante dai tempi del liceo.
“Non solo. Dall’anno scorso ho preso il brevetto di PPL (Private Pilote Licence), posso pilotare un aereo per scopi privati. Nei prossimi sei mesi volerò il più possibile. Escludendo ottobre, quando tornerò in Nepal”.
Non le mancherà il lavoro?
“Nel 2019 non sarò sul set, ma devo promuovere due film e una serie girati l’anno scorso. Il primo è un film polacco, Dolce fine giornata, appena presentato al Taormina Film Fest”.
Un titolo che fa pensare al classico film polacco in bianco e nero, triste da morire.
“Non è quel genere, è un film politico, girato in Italia, in Toscana. Sono la figlia della protagonista, Krystyna Janda, musa di Wajda. Lei è una poetessa premio Nobel che decide di restituire il premio dopo un attentato terroristico, e questo scatenerà una reazione a catena nel paese dove vive, Volterra. Una piccola comunità che rispecchia quello che sta succedendo in Europa: stiamo virando verso un’idea di fascismo espressa ad alta voce, senza remore. Mentre intanto viene alimentata la paura del diverso, di chi viene da lontano”.
Oltre al film impegnato, ne ha uno più leggero?
“Ho una serie tv per Sky sul mondo della finanza, Devils, con Patrick Dempsey e Alessandro Borghi. E pure l’adattamento di Perfetti sconosciuti in polacco. È stata un’occasione per scoprire quanto non mi senta più polacca, soprattutto nel cibo. Pensi che lì scolavano la pasta e la lasciavano là, senza condirla: non si fa! In Italia si sbriciola il pane in tavola, in Polonia è considerato da incivili. Mi sono scoperta molto italiana”.
Solo a tavola?
“No. Mi sono chiesta anch’io tante volte se mi sento più italiana o polacca. Vivo in Italia da vent’anni ma le mie radici sono polacche. Però la Polonia in questi vent’anni si è trasformata. Sono cresciuta con la valigia in mano, papà si spostava spesso da una base militare a un’altra. Mi sono abituata a pensare che la mia casa è dove sono io, con la famiglia. Piuttosto che italiana o polacca, preferisco dire che mi sento europea. Non mi importa se sono in Italia, in Germania, in Polonia. Ma quando qualcuno se la prende con l’Europa, mi viene una gran rabbia”.
Tra promozione dei film, Nepal, famiglia, nella sua lista di obiettivi per il 2019 avrà già spuntato qualcosa.
“Ebbene sì: volare con le Frecce Tricolori. Un sogno che avevo da molto tempo e finalmente ho realizzato”.
È stato come lo immaginava?
“Di più: è stato fantastico!”
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