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Giancarlo Giannini: “Feci piangere Keanu Reeves, scappò via da set. La morte di mio figlio superata per la mia famiglia”

Giancarlo Giannini: “Feci piangere Keanu Reeves, scappò via da set. La morte di mio figlio superata per la mia famiglia”

Giancarlo Giannini: “Feci piangere Keanu Reeves, scappò via da set. La morte di mio figlio superata per la mia famiglia”. Lunga intervista di Giancarlo Giannini rilasciata ai microfoni de ‘Il Corriere della Sera’.

«Ho imparato a dormire anche solo venti minuti per notte, perché più stai sveglio, più vivi. Quando giravo Film d’amore e d’anarchia di Lina Wertmüller, Tunin il contadino richiedeva otto ore di trucco e non mi restava tempo per il sonno. Al che, pur non essendo un figlio dei fiori, provai una tecnica yoga usata dai cammellieri del deserto: fai meditazione facendo partire il rilassamento dai piedi e, quando arrivi alle ginocchia, già cadi in un sonno profondo, ti svegli subito e sei riposatissimo. Purtroppo, con l’età, funziona meno».

Che cos’ha da fare, di notte, Giancarlo Giannini?
«Certi copioni è meglio non studiarli di giorno, se no, moglie e figli ti prendono per matto. Per esempio: Il male oscuro di Mario Monicelli non sapevo come farlo. Mi chiedevo: come si fa vedere la sofferenza interiore?».

Che si rispose?
«Che dovevo creare un personaggio disarmonico. Perciò, m’ispirai a tanti animali quante erano le scene, 104: cavalluccio marino, mammut, scimmia… Mi misi a provare. Però, dici la battuta ruggendo come un leone e senti che non la capisce nessuno, allora, la rifai e la rifai e, piano piano, rendi il leone umano e poi gli dai una tensione che forse lo lega alla scena precedente in cui facevi l’asino. Per cui, il pubblico sente l’inconscio dissociato di uno che soffre e ha ora le tensioni del leone, ora la morbidezza del serpente. Le prove puoi farle solo di notte, se no, arriva l’ambulanza».

Serve sempre il ruggito del leone per entrare nei personaggi?
«Devi innanzitutto divertirti. Per il resto, basta fingere, usare la fantasia. Rispetto il metodo Stanislavskij, ma non certe declinazioni violente, quelle per cui ti devi immedesimare e per fare il malato terminale stai sei mesi in ospedale tra i moribondi, poi però non sai più uscire dal personaggio. Io finisco un film e già voglio farne un altro. La volta in cui mi sono divertito di più è stato in Sessomatto di Dino Risi: dieci personaggi in un solo film. Io sul set mi diverto come un bambino che si mette il vestito di Zorro ed è Zorro. Agli studenti del Centro Sperimentale, insegno non a dire la battuta, ma insegno la gioia di vivere».

E che cos’è la gioia di vivere?
«Conservare il fanciullino infantile. Se no, come fai a raccontare, a giocare? Gli attori che s’immedesimano troppo cadono depressi, bevono, si drogano. Ecco, torniamo indietro».

Perché fece piangere Keanu Reeves?
«Giravamo Il profumo del mosto selvatico, Alfonso Arau voleva che provassimo un’immedesimazione, dissi: guarda che sono cose pericolose per la mente. Niente. Dovevo insultare Keanu, facevo il padre di una ragazza che non volevo sposasse, e lui, immedesimandosi, si è messo a piangere, è scappato e non s’è più trovato. Dissi ad Arau: hai visto? Oggi non giriamo, pensa quanto costa alla produzione».

Giancarlo Giannini: “Feci piangere Keanu Reeves, scappò via da set. La morte di mio figlio superata per la mia famiglia”.

Keanu ricomparve dopo un’ora, due?
«No, no. Il giorno dopo».

Cos’è per lei un attore?
«Lo chiesi a uno grandissimo, il francese Jean-Louis Barrault. E lui: è colui che col movimento incide lo spazio del palco e con la voce incide il silenzio. Che cosa meravigliosa… Per me, l’attore è uno che vuole comunicare. Io entro in un bar, vedo la vecchietta seduta, le chiedo com’è il caffè. Lei magari mi guarda male, pensa che voglio portarle via la borsetta, poi mi racconta la sua vita. Sorride. Fare l’attore è far sorridere, è “quel momento”».

Lei quanto sorride?
«Tanto. La vita è un mistero che qualcuno ha detto “non lo penetrare, non arriverai mai alla conoscenza”, ma io ogni giorno penetro piccoli misteri che mi appagano, come il mistero semplice di uno spaghetto buono».

Semplice non era la sua spiegazione della pasta al pesto: 30 pagine nella sua autobiografia «Sono ancora un bambino».
«Far bene il pesto significa partire da come nasce il seme del basilico, iniziando dalla storia delle scalinate costruite in Liguria su terre a picco sul mare. Se fai l’attore, devi andare al fondo di tutto, devi capire il perché della tua espressività, quindi, devi essere curioso, non ti devi perdere nulla anche se parli di basilico».

La formazione da elettrotecnico c’entra con la voglia di capire?
«C’entra molto con la recitazione, che è giocare con quello che non c’è. Come fai a sapere cosa succede dentro un filo di rame, a migliaia di circuiti piccoli, a un chip? Lo devi immaginare. Allo stesso modo, quando ti danno un personaggio, cosa fai? Lo devi inventare. Scena uno, due, tre… Io adopero l’elettronica per fare diagrammi del personaggio».

Che genere di diagrammi?
«Faccio il suo elettrocardiogramma, segno i battiti del suo cuore, mi chiedo che ritmo ha quando fa scena uno, due, tre… Poi, lo guardo e penso: posso movimentarlo di più, cambio il ritmo da andante ad allegro a severo, come per la musica. Per adoperare la fantasia, devi essere coraggioso. Significa incontrare qualcosa in cui puoi sbagliare. Agli studenti, dico: ragazzi, sbagliate, se non è errore, è una scoperta».

Com’è essere diretti da Lina?
«Ha l’energia di cinque registi uomini messi insieme. E riesce a parlare in modo diverso a ogni attore, capendone la psicologia. Perciò sa far recitare le pietre. In Mimì metallurgico, aveva scovato una cantante napoletana analfabeta, bravissima, le insegnavo io le battute, perché non sapeva leggere. Io e Lina abbiamo costruito insieme i miei personaggi, Mimì nacque da un trattamento che le avevano rifiutato in tanti. Mi chiamò dopo avermi visto in Dramma della gelosia di Ettore Scola, voleva un proletario come quello, e ci mettemmo a lavorare cercando quel vecchio soggetto fra i faldoni, i copioni, affastellati in tutta la casa».

Affiancandola a Mariangela Melato, lanciò una coppia di sex symbol.
«Mariangela aveva grazia, era simpatica, ed è facile recitare con chi viene dal teatro».

Se non prova copioni, che altro fa di notte?
«Invenzioni. Ho inventato di tutto… Un portachiavi che risponde ai comandi vocali, guanti per la realtà aumentata, un giubbotto interattivo finito in Toys di Barry Levinson. Robin Williams mi chiamava di continuo per sapere come farlo suonare o vibrare. Se lo voleva tenere, non gliel’ho dato».

Che posto ha avuto l’amore nella sua vita?
«Le donne mi sono sempre piaciute, da quando m’innamorai la prima volta, non ricambiato, a sette anni. Ora, porto in teatro Le Parole note, dove con un accompagnamento musicale recito poesie sulle donne dal Duecento a oggi, dal “tanto gentile tanto onesta pare” ai versi più carnali di Pablo Neruda, “corpo di donna, bianche colline, cosce bianche”».

E lei con le donne è dantesco o nerudiano?
«Metto insieme tutto, la donna è talmente complicata che non puoi semplificarla».

Che marito è stato?
«Che viaggiava tanto. Però, quando ho potuto, sono stato vicino ai figli. Quando mi sono separato, il sabato e la domenica, li caricavo in auto, lanciavamo una monetina in aria per decidere se andare a Nord o a Sud. Ci fermavamo nel verde, facevamo foto, filmini, acquerelli, entravamo in un ristorante, davamo i voti ai piatti. Questi sono i piaceri della vita».

Com’è stato perdere un figlio ventenne?
«Terribile. L’unica cosa che ricordo era che guardavo il resto della famiglia e mi dicevo: se credi in Dio, devi aiutare loro».

E lei crede in Dio?
«La fede mi è entrata dentro intorno ai 30 anni, come un mistero, un piedistallo per affrontare tutte le cose della vita. Vittorio Gassman, quand’era depresso, mi chiedeva sempre com’era entrata e non glielo sapevo spiegare. E lui: sono geloso perché hai questo piedistallo, ne vorrei uno pure io, anche piccolino».

A che cosa pensa, la notte, quando finalmente spegne la luce?
«A quello che non c’è. Penso sempre che una stella, morta milioni di anni fa, ancora manda la sua luce, che viaggia a 300 mila chilometri al secondo. E penso al mio corpo sdraiato al centro del letto mentre, dal centro Terra, parte una forza, che è la gravità, e che è gratis. Mi dico: a saperla sfruttare, potrebbe essere una nuova forma di comunicazione».

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