Maria Chiara Fraschetta, meglio nota come Nina Zilli, si racconta in una intervista rilasciata a ‘Il Corriere della Sera’:
«Ho trovato qui nel verde il mio angolo di Milano, mi piace tantissimo, sarà che sono abituata alla Val Trebbia. La provincia ti fa scappare, ma poi la cerchi sempre perché quella pace, quella noia… ti mancano. Nasce tutto dalla calma piatta di Gossolengo». Sta preparando l’ultimo album e ha anche realizzato un libro illustrato, Dream City (Rizzoli), la città dei sogni dedicato alle ragazze d’oggi.
«Amazzoni metropolitane sempre pronte a vivere l’avventura della vita». Intanto, cura il documentario sui bambini siriani strappati all’Isis, rifugiati in Libano, che ha visitato con Terre des Hommes (in onda a breve su Sky Arte).
«Per essere ammessi a scuola devono conoscere tre lingue e l’ingresso è difficilissimo. Spesso finiscono per dover lavorare e questo mi ricorda la storia di mio nonno rimasto orfano durante la guerra. Ma ho colto anche tanta gioia di vivere nei loro occhi».
Fantasia e creatività. Ma chi è la donna Nina?
«Non so. Dico sempre che ho i popcorn nel cervello, tantissimi che esplodono, la testa tra le nuvole e stinchi rotti, perché perdi di vista il tuo corpo». Solleva il jeans largo e alto in vita portato con una camicia a stampe bianco-rosse e mostra i lividi sulla gamba sinistra.
E la Nina artista?
«Sono un melting pop di tutta la musica della mia vita. E quindi il giorno in cui mi esce di più Otis Redding scrivo un pezzo R&B mentre se ho in testa Phyllis Dillon… E potrei andare avanti all’infinito». Lei illustra tutti i suoi dischi, scrive libri «fumettosi».
Più musicista o artista figurativa?
«La musica è l’amore più grande, che mi ha fatto abbandonare tutto il resto quando ero piccola. Il rock ‘n roll si è impossessato di me: ho salutato la pittura, il basket, e ahimè anche il Conservatorio dopo soli cinque anni. Poi ho cominciato a suonare più che altro nelle salette. Ho inciso il primo disco a 14 anni da un amico che aveva lo studio nel garage del padre meccanico».
Anche ex cestista?
«Ai campionati italiani siamo arrivate anche seconde con la squadra di Gossolengo, ne vado fiera».
Racconta sempre che da piccola si sentiva brutta. Chi l’ha aiutata a trasformarsi in cigno?
«Ero una bambina introspettiva, nerd. Fino a 13 anni ho portato l’apparecchio ai denti. Ero un po’ sfigatina… Quando tu hai 15 anni e fino a poco prima hai avuto delle macerie di ferro in bocca, non puoi che sentirti così per altri dieci anni. Devi subire i bulli, ma questa cosa mi ha creato una grande corazza. Ha fatto sì che me ne fregassi. Alla fine mi ero accettata, non ero bionda… Non ho messo i tacchi fino a 26 anni e ho continuato a vestire super grunge, maglioni, felpe. Penso che mia madre fosse contenta perché fino a 16 anni non sono mai andata in discoteca».
Il sorriso ora è perfetto. Quanto conta la bellezza?
«Credo che in questo mestiere qualunque artista debba avere una faccia. È un forte ponte comunicativo, da Billie Holiday che rimaneva immobile e alzava solo un braccio, fino a Tom Waits. Diana Ross era bellissima ma Etta James non era sicuramente la più aggraziata. Nel nostro lavoro credo conti l’anima: non devi essere necessariamente bella».
Che cosa fanno i suoi genitori?
«Sono due ragionieri, lontani da questo mondo. Però mamma mi mandò a scuola d’inglese a 5 anni e adesso sono bilingue».
Come si diventa Nina Zilli?
«A farmi fuggire da casa è stata mia madre… contro la mia volontà, quando avevo 10 anni. Ero la classica figlia molto timida. Studiavo pianoforte al Conservatorio. Mamma mi mandò in Irlanda — tra l’altro in mezzo ai 16enni —. Se ne pentì amaramente: ci sono rimasta per cinque anni. Alle medie ho fatto l’Erasmus, poi tornavo a luglio con le vacanze studio. Alle superiori non ho più potuto farlo e tornavo solo d’estate a casa dei miei amici. Mi sono anche trasferita per un periodo negli Stati Uniti, Chicago e un po’ a New York. Volevo fare le superiori lì, ho fatto tutti i test, ma invece di un sogno americano ho trovato un sacco di porte in faccia. Avevo 18 anni e anche abitando davanti all’House of Blues non mi ci hanno mai fatto entrare per due anni di fila. Per me che amavo la musica è stato qualcosa di insormontabile. Tanto che ho deciso di tornare a casa».
Che scuola ha fatto?
«Liceo scientifico, al Respighi, perché fin dalle elementari era chiaro che la matematica, la musica e il disegno erano le mie più grandi passioni. Avrei voluto fare l’artistico, ma mia madre non me lo ha proprio permesso. Poi ho frequentato l’università, lo Iulm a Milano».
E oggi come sta la donna nella musica italiana?
«Sono abituata a vivere in un mondo di maschi. Da piccola sognavo una band di sole femmine e non riuscivo mai a trovare la batterista e la bassista, quindi sono la prima a sapere che è un ambiente per la maggioranza maschile. Io ho avuto fin da piccola propensione per gli strumenti, non so perché ancora la maggior parte delle donne canti e basta. Ma siccome questo è un mestiere che uno su mille ce la fa, alla fine penso che il sesso conti poco».
Come vede i nuovi duetti commerciali?
«Per me il problema non esiste. Sto facendo il disco, mi dedico alla scrittura e faccio anche gli arrangiamenti. Il primo album l’ho realizzato completamente da sola, poi l’ho consegnato alla casa discografica. Carlo U. Rossi l’ha sentito e mi ha fatto subito cantare».
Sanremo è stato importante?
«A 5 anni puntavo il dito verso la televisione quando c’era il Festival di Sanremo e dicevo a mia madre: “Voglio andare lì”. Il primo Sanremo (giovani) arrivò nel 2009 con Antonellina (Clerici), poi altre tre volte — Per sempre, Sola e Senza appartenere, oltre a un duetto con LaCrus. Ricordo tutto, anche gli odori del camerino che sono sempre gli stessi».
Che consigli darebbe a un adolescente?
«Di tentare di vivere la vita in modo più analogico possibile. Perché altrimenti non sa cosa si perde. Di dimenticare il cellulare a casa, soprattutto ai concerti. Uno dei sogni del mio libro è proprio quello: che tutti i cuori battano all’unisono con la cassa della batteria. Capita se lasci a casa il cellulare».
Che cosa l’ha ferita?
«La cattiveria gratuita della gente. Meglio arrivare preparati. Ma in realtà, forse, le delusioni più grandi, quelle che bruciano di più non sono mai del lavoro. Chiaramente quando ti tradisce qualcuno che ami e che reputi la tua famiglia è qualcosa di molto più grave, ed è quello che alla fine fa sempre più male».
Perché finisce un amore?
«È così banale… finisce perché non ci si ama più. I motivi possono essere mille, ma alla radice di tutto, se vogliamo sintetizzare, perché non si ha più abbastanza voglia di continuare a costruire invece che distruggere».
Lei ha una passione per gli sportivi?
«Sportivi? Solo uno, quello là (è stata fidanzata con Stefano Mancinelli, giocatore di basket; ndr). Ma sa quanti ex fidanzati ho? Venti a uno? (scherza). La statistica non è un’opinione. No, no: in realtà Omar è un artista da sempre, ha frequentato Brera; se si sente definire sportivo si offende. È stato pugile come io giocavo a basket…».
«In un modo incredibile: io “googlavo” il titolo del disco abbinandolo ai nomi di artisti emergenti perché ho sempre seguito anche la grafica dei miei album e cercavo il modo di “sporcare” i miei disegni. L’ho scoperto così e ho cominciato a seguirlo su Instagram. Ero nel giardino di mia nonna pieno di fiori, ho fatto una storia e lui l’ha commentata dicendo che gli piacevano molto i miei colori. Poi mi ha cercata. La prima volta ci siamo visti sotto casa mia. “Passavo di qua”, mi ha detto».Che cosa condividete?
«La passione per l’arte e la musica. L’ho fatto venire in saletta, perché lui suona la batteria, e io vado nel suo studio e mi diverto a disegnare».È fedele?
«Tendenzialmente sì, (ride). Gelosa? Mi inc… come una faina. Non è tanto una questione di fedeltà, si tratta di avere dei valori. Se io sento che posso avere qualcosa che non va, interrompo subito…».
Crede nel matrimonio?
«Considerato che canto Sola mi piace pensare che le cose belle non durano mai per sempre ma esistono anche delle eccezioni. Bisogna crederci e io questa volta ci credo. Però, fin da piccola riesco a godere anche della solitudine».
Per Nina il bicchiere com’è?
«Sempre mezzo pieno, perché anche se è mezzo vuoto tanto vale vedere la parte più bella».
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