Bus in fiamme a Milano, Ousseynou Sy:
Il carabiniere gli punta addosso la pistola Beretta. Ousseynou Sy è in piedi. Indossa mocassini neri e pantaloni di colore grigio scuro, come la maglietta, che non ha scritte né aloni di sudore. Sy osserva quell’ arma. Muove lentamente il corpo sovrappeso di un metro e novanta, e si sdraia sul pavimento del bus, che è fermo sulla seconda corsia del tratto IV/2 della strada provinciale Paullese.
I cinquantuno ragazzini tenuti in ostaggio per un’ora e mezza sono già liberi, a sei chilometri da Linate, l’obiettivo finale del piano stragista: cinquantuno ragazzini da usare come «scudo» umano per aprirsi un varco nell’aeroporto e salire su un aereo. Il carabiniere ammanetta Sy, lo trascina fuori dal bus. A bordo, si sono alzate le fiamme, che feriscono l’ attentatore al dorso della mano sinistra. I vestiti adesso puzzano di benzina, sparsa sui sedili e le cappelliere. Sono le 11.55 di mercoledì. I carabinieri prendono in consegna il dirottatore, che lasceranno alle 2 di notte, nel carcere di San Vittore.
Sy viene fatto sedere su una Giulietta dei carabinieri. Dal finestrino, fissa lo scheletro del bus, dal quale si è staccato uno pneumatico. La macchina percorre la Paullese; a San Donato Milanese, entra nella caserma dei carabinieri. Per Sy, ci sono le operazioni di fotosegnalamento. Non chiede dell’acqua. Non gli serve il bagno. Non guarda nessuno negli occhi. Non è timidezza o paura, ma odio. Odio contro «i bianchi». Odio contro «voi bianchi che ci avete invaso e colonizzato, ci avete distrutto e ora ci respingete, facendoci morire nel Mediterraneo». Parla rilassato. Non alza la voce. Scandisce le parole. L’essere in una caserma, non lo spaventa.
I carabinieri lo osservano. E il respiro è regolare, gli occhi non vagano in cerca di una via di fuga, le mani sono ferme. Non si accarezza il viso. Non indugia sulle unghie. Completato il fotosegnalamento, Sy torna sulla Giulietta: nel breve tragitto a piedi, il passo è stato costante, la postura eretta. Il primo ospedale è il Policlinico di San Donato. In macchina, Sy inizia a raccontare del piano stragista. «Lo preparavo da tempo, mi sono deciso quando ho visto in tele la nave “Mare Jonio” e le azioni dei politici italiani per ostacolare le Ong».
Nel Policlinico, un dottore esamina la mano. La situazione non è grave, ma si decide una visita al Reparto specializzato dell’ospedale Niguarda. I carabinieri ancora non gli domandano nulla. È Sy a porsi interrogativi e rispondere. «Pentito? Nessun pentimento. Era una cosa che dovevo fare e che rifarei. Cento volte. Perché l’ho fatto? Per mandare un segnale all’Africa. Gli africani devono restare in Africa». Non pensa ai cinquantuno ragazzini, Sy. E non pensa ai propri figli. Si crede dentro una missione, coerente fino alla fine. Non aveva pianificato un’azione kamikaze. È fondamentale ascoltare una delle telefonate inoltrate al 112 da chi era su quel bus.
Nella conversazione, Sy ordina a un professore della scuola media di parlare con i carabinieri. Il professore spiega: «Questo dice che vuole andare sulla pista di Linate… I bambini sono legati… Ha in mano un accendino, minaccia di dar fuoco a tutto…». Linate. Sy lo ribadisce ai carabinieri, nel trasferimento dal Niguarda — gli hanno tolto la pelle bruciacchiata, hanno spalmato una crema e fasciato la mano — alla Procura, per l’interrogatorio. Ha in tasca due passaporti, uno italiano e l’altro senegalese. L’avvocato Davide Lacchini gli ricorda che in prigione affronterà un lunghissimo percorso. «Non fa niente, l’avevo messo in conto. Volevo un’azione eclatante, il mondo doveva parlare di me».
Fonte: corriere.it
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