Lo scrittore pugliese Pino Aprile ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni di Pietro Senaldi, direttore di Libero Quotidiano:
Nei giorni scorsi il titolo di di Libero quotidiano aveva suscitato un vero e proprio marasma. I botta e rispjsta si sono susseguiti fino all’intervista che lo scrittore pugliese ha rilasciato al quotidiano. Ve la proponiamo integralmente:
Perché titolò il suo libro proprio “Terroni”?
«Non fu un’idea mia ma degli editori. All’inizio ero contrario, perché pensavo a un libro freddo e distaccato. Lo feci così e non mi piacque, quindi lo riscrissi, forte, e a quel punto il titolo ci stava benissimo, perché testimonia la rabbia e il disgusto che ho dentro ma anche il recupero della storia negata del Mezzogiorno. Non è solo la parola terrone, in Italia tutto ciò che attiene al Sud assume una valenza negativa, anche l’aggettivo borbonico ce l’ha. Per non parlare del sostantivo meridionalismo, una dottrina sofisticatissima, per di più nata sostanzialmente al Nord, che si proponeva di comprendere e risolvere la questione meridionale, nata con l’Unità, e che ora è sinonimo di assistenzialismo d’accatto».
Il suo ultimo libro invece si intitola “L’Italia è finita”: perché?
«Perché questo Paese è una finzione, è nato diviso e sotto cattivi auspici, il giorno 17, per di più di martedì, quando non ci si sposa, non si parte né si dà principio all’arte. Siamo una nazione duale e pertanto destinata al fallimento, meglio prenderne coscienza. Dall’Unità d’Italia a oggi, il divario tra Settentrione e Meridione non ha fatto che allargarsi. Fino al 1861, nel Sud si concentravano i due terzi dei soldi del Paese, dopo l’esperienza fascista per la prima volta nella storia tutte le Regioni del Mezzogiorno si sono ritrovate più povere di tutte quelle del Centro e del Nord: sotto la retorica mussoliniana del nazionalismo si celava il trionfo delle ragioni che hanno spaccato l’Italia».
Cosa prevede per il futuro?
«Oggi il barometro segna secessione. Finché l’economia tirava, e non c’era ancora l’euro, il Paese grazie alla svalutazione poteva ancora reggere in qualche modo, concentrando gli investimenti pubblici al Nord e l’assistenzialismo clientelare al Sud. Oggi però c’è un divario incolmabile tra i due Paesi che formano l’Italia e non sta nell’economia o nella qualità dei servizi e della vita. Tutto quello che è pratico è risolvibile, ma davanti alla distanza di cuori e menti non puoi far nulla nel breve termine».
Nessuno oggi parla più di secessione
«Il governatore del Veneto, Luca Zaia, lo ha detto subito dopo il referendum. Ma è il flusso della storia che spinge a questo: già quando il Paese nacque, l’idea dell’Italia unita era condivisa da una piccolissima minoranza, l’1% dei futuri italiani, un po’ di idealisti e tanti figli di buona donna e affaristi, con una nazione, il Piemonte, tecnicamente fallita, che voleva ripagarsi i debiti con i soldi delle terre conquistate. Oggi che ci sono la globalizzazione e la civiltà informatica, gli Stati nazionali sono un impiccio al mercato unico e vanno eliminati».
È l’idea degli europeisti?
«Sì, ma l’Europa è fallita, ha perso la propria battaglia contro gli Stati nazione, che non è riuscita a unire e che però oggi sono vittime di spinte centrifughe: la Catalogna, la Baviera, la Scozia, il Veneto, tutto spinge alla separazione. E francamente, da meridionale, se deve continuare così, me lo auguro: visto come funzionano le cose da 160 anni in questo Paese, per il Sud potrebbe essere una fortuna».
Prevede due Italie: al Nord una leghista e al Sud una grillina?
«Se i grillini vanno avanti così, non credo. La gente è furibonda con loro, l’alleanza con la Lega sta penalizzando Cinquestelle al Sud: prevedo che alle Europee M5S prenderà una sberla colossale. L’Ilva, il Tap, l’autonomia, le grandi opere al Nord quando ancora non c’è una linea ferroviaria diretta che unisce Bari e Napoli. Molti meridionali non perdoneranno i cedimenti grillini, anche se vedo che ultimamente il Movimento sta cercando di cambiare pelle: finora non aveva capito il Sud e lo sfrutta solo come bacino elettorale ma adesso c’è una piccola ma determinata pattuglia che ha intuito quanto il voto meridionale sia legato alla rappresentanza e sta cercando di imporsi».
Come si spiega il boom di Di Maio e soci al Sud?
«Il Sud ha preso coscienza di essere un soggetto politico unitario, con le medesime esigenze, e si è votato a una forza meridionalista che si presentava come nuova. Ma il processo è partito prima: che il Mezzogiorno ormai sia un blocco elettorale compatto, è chiaro dal 2015, quando per la prima volta nella storia tutto il Sud si votò al centrosinistra: il Pd arrivò a governare tutte le Regioni e le principali città».
E poi cos’è successo?
«Che ci aspettavamo di vedere arrivare un treno a Matera, 400 metri sul livello del mare, ma Delrio mandò i geologi a studiare le rocce, mentre sull’Himalaya i binari corrono a 5.000 metri d’altezza. Renzi aveva illuso il Sud ma poi, temendone le richieste, mise i governatori l’uno contro l’altro, scatenando la guerra al pugliese Emiliano, che voleva un’azione comune delle regioni del Mezzogiorno. Risultato, al referendum del 4 dicembre 2016 i meridionali votarono in massa contro».
Se il Sud smetterà di votare M5S si orienterà verso la Lega?
«La Lega ha percentuali inferiori a quelle che aveva la destra di An e deve stare molto accorta nella scelta della propria classe dirigente meridionale, visto come sta pescando. Più facile che la gente torni a non votare. Anche se vedo che stanno nascendo piccoli partiti territoriali i quali per il momento non decollano perché sono in competizione tra loro. Se si fondessero però».
Pensa a dei gilet gialli del Sud?
«Nel marasma meridionale oggi può venir fuori di tutto. Il sentimento del Sud è molto chiaro: è arrabbiato perché si sente derubato e sfruttato dal Nord».
Non tende ad assolvere troppo la classe politica meridionale?
«La classe dirigente locale ha colpe locali ed è funzionale a quella egemone nazionale. I politici meridionali si sono fatti sistematicamente cooptare per fare gli interessi del potere dominante. O facevano così, o non duravano»
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