Combattenti dell’Isis arrestati:
Sorride, Wael Labidi. Sorride nel selfie con il miliziano dell’Isis che la vigilia di Natale del 2014 catturò Muadh al Kassasbe, il pilota giordano precipitato con il suo F-16 in Siria e poi bruciato vivo in una gabbia dai boia del Califfo. Wael sorride come in altre foto scattate alcuni mesi prima a Torino. Si era fatto immortalare in piazza San Carlo e poi ai piedi della Mole, aveva postato le immagini su Facebook e commentato così: «Quanto amo questa città». Si era mostrato entusiasta anche per il corso di laurea in Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa che frequentava a Palazzo Nuovo. Ma era tutto un bluff, una finzione.
Mentiva, Wael. Mentiva come quando descriveva la sua grande passione per la Juventus e l’ammirazione per lo stile di vita degli italiani. In realtà non studiava all’Università. E non erano iscritti a Palazzo Nuovo neppure i suoi amici e connazionali Nafaa Afli, Bilel Mejri, Marwen Ben Saad e Bilel Tebini. Ma se nel frattempo lui è morto combattendo per il Jihad, gli altri quattro tunisini che vivevano a Torino sono stati rinviati a giudizio e dal 21 febbraio dovranno difendersi in Corte d’Assise dall’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale. A chiedere il processo è stato il pubblico ministero Roberto Sparagna nell’udienza preliminare celebrata davanti al gup Giulio Corato.
Afli, Mejri, Ben Saad e Tebini erano arrivati in Italia «richiedendo un permesso di soggiorno per motivi di studio». Ma come sottolineò il Tribunale del Riesame nell’ottobre del 2017, «tutti avevano fornito false attestazioni sul superamento degli esami per garantirsi l’iscrizione presso l’Università degli Studi di Torino, necessaria all’ottenimento e al rinnovo del permesso di soggiorno». Parlando al telefono con un’amica, il 25 gennaio 2016, «Nafaa Afli riconosceva» in effetti «di essersi iscritto all’Università presentando documenti falsi senza che nessuno se ne fosse mai accorto».
Un mese e mezzo più tardi i carabinieri del Ros avevano intercettato una conversazione ancora più interessante, all’interno di un appartamento nella periferia della città. «Se andassimo a farci martiri in Siria sarebbe meglio», aveva commentato Ben Saad parlando con Afli e Mejri. «Tu ti saresti ucciso?», aveva domandato il tunisino ai suoi due connazionali riferendosi ai «martiri morti» qualche settimana prima nelle località nordafricane di Kesserine e Ben Guardane. Ben Saad aveva insistito: «Se tu andassi a combattere sarebbe meglio, tanto a cosa servi in questa vita? Non servi a niente». Poi il pensiero era volato a chi ce l’aveva fatta, a Wael Labidi e all’altro connazionale Khaled Zeddini, morti per il Jihad in Siria: «Loro sono nel posto della verità e noi nel posto del peccato, loro hanno venduto la vita e comprato il giudizio».
La conversazione era stata intercettata il 7 marzo 2016, quando l’inchiesta per terrorismo avviata dalla Procura e denominata «Taliban» si trovava ancora nella sua fase più delicata. Quasi due anni dopo, nel febbraio 2018, Ben Saad, Afli e Mejri erano stati arrestati con l’accusa di essere fiancheggiatori dell’Isis e dello Stato Islamico. Centoventi giorni più tardi era finito in manette anche Tebini, individuato e catturato in Austria: era fuggito dal nostro Paese dopo aver dichiarato di essere «pronto a compiere un’azione terroristica» e aveva trovato riparo in Belgio, da lì si era infine trasferito a Vienna.
Per l’accusa, i quattro tunisini (ora tutti in carcere in Sardegna) avrebbero aderito alla «ideologia del Jihad estremista e violento», diffuso sul web «video e fotografie sull’adesione all’Isis», partecipato a «comizi con militanti combattenti», fornito «assistenza legale ed economica ai sodali arrestati» e persino «l’omaggio rituale ai martiri in seguito al loro decesso». A difenderli, nel processo che si aprirà a febbraio a Torino, saranno gli avvocati Sara Baldini, Massimo Parenti e Vittorio Platì.
Fonte: corriere.it
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