Roberto Saviano prova a fare chiarezza sull’omicidio del pentito a Pesaro sulle pagine web de ‘La Repubblica’:
“Le organizzazioni mafiose hanno solo da perdere a uccidere un collaboratore di giustizia. Per quanto possa sembrare contro-intuitivo e sia più logico credere che la vendetta verso chi parla sia ammazzarlo, è la cosa più dannosa per una cosca. Perché? Perché uccidendo colui che ha reso una testimonianza su un clan, o ammazzandone un parente, si convaliderebbe il contenuto di tutta la sua confessione. L’atto militare che il pentito o il suo sangue subiscono concederebbe all’istante autorevolezza alla sua dichiarazione.
Il collaboratore di giustizia Maurizio Prestieri, braccio destro del boss di Scampia Paolo Di Lauro, racconta che fu proprio all’inizio della sua collaborazione che uomini dello Stato gli spiegarono questo meccanismo: “Se dovessero toccarla, tutte le cose che lei ha detto diventerebbero insindacabili”. È lo stesso motivo per cui la famiglia Schiavone di Casal di Principe non ha mai ucciso Carmine Schiavone, responsabile delle rivelazioni che hanno portato al processo Spartacus, il maxi-processo contro il clan dei Casalesi. Meglio provare a smontarle, le sue dichiarazioni, in anni di processo che uccidere lui. Le organizzazioni cercano di fare la lotta ai collaboratori di giustizia nei tribunali o sulla stampa.
Non solo: da alcuni anni, negli Stati Uniti, le organizzazioni mafiose italoamericane (a iniziare dalla famiglia Genovese) hanno autorizzato i loro membri a collaborare con la giustizia entro certi limiti stabiliti prima dell’arresto. In pratica, le famiglie mafiose sfruttano la necessità di un giudice e di una procura di portare in tempi brevi lo scalpo di una vittoria, approfittano della necessità della politica di sbandierare di aver sgominato un clan per averne un ritorno in termini di consenso.
I mafiosi si organizzano non per mentire, ma per dire una verità parziale: sacrificano alcuni uomini e una parte degli affari, li danno in pasto allo Stato permettendogli di urlare al successo, e una volta intascato lo sconto di pena, rientrano nell’organizzazione e non da infami. Questo fa la mafia newyorkese. Ma non è sempre andata così e non va sempre così.
Quando si pentì il primo vero leader di un’organizzazione criminale organizzata, Tommaso Buscetta, gli fecero sparire i due figli, gli ammazzarono il fratello, quattro nipoti, il genero e un cognato. I corleonesi in quel caso dovevano fermarlo e potevano ancora farlo, perché prima di Buscetta prove dell’esistenza della cupola di Cosa nostra e della sua struttura non esistevano. Le sue dichiarazioni erano quindi fondamentali: morto o zittito Buscetta, sarebbero finite anche le confessioni su Cosa nostra e probabilmente i processi importanti. La vendetta non avrebbe fermato dunque solo le dichiarazioni di un pentito, ma le rivelazioni che i tribunali ancora non avevano e, non avendole, il rischio di fallimento del procedimento penale era molto alto.
Diverso è quando lo Stato ha già riconosciuto con centinaia di sentenze un’organizzazione e ha già informazioni chiare su una famiglia: uccidere, in questo caso, non può che essere dannoso. Nel caso di Marcello Bruzzese, ucciso a Pesaro a Natale, si potrebbe trattare anche di una vendetta che prescinde dalla collaborazione del fratello, ossia di un omicidio che vendica il tentativo di suo fratello di ammazzare il boss Teodoro Crea. Se così fosse, Bruzzese sarebbe stato ucciso per ciò che suo fratello ha fatto e non per ciò che ha detto.
A portare a questa ipotesi è il giorno scelto: Natale, appunto. Le vendette si celebrano sempre in un giorno importante: Natale, compleanni, onomastici…così la famiglia, a ogni anniversario, in quella giornata che dovrebbe essere di festa, ricorderà inevitabilmente il dolore. Ma potrebbe anche trattarsi di un omicidio di purificazione, che nel linguaggio ‘ndranghetista indica un omicidio fatto per punire il sangue che ha avvelenato la ‘ndrina con un infame.
In ogni caso, questo omicidio è in controtendenza con la prudenza che le mafie hanno verso i pentiti. Per esempio, quando Domenico Bidognetti ‘o Bruttaccione si pentì nel 2007 e iniziò a confessare i suoi oltre 60 omicidi, il gruppo Setola, che voleva egemonizzare la camorra casertana, gli uccise il padre Umberto, anche se quell’omicidio ormai non poteva fargli più ritrattare le sue dichiarazioni. Ucciderlo fu controproducente, ma il gruppo Setola voleva innanzitutto “promuovere l’immagine” del clan. Per questa ragione è fondamentale difendere i collaboratori di giustizia e i loro parenti.
Bruzzese aveva il nome sulla buca delle lettere e si rendeva riconoscibile da tutti, come mai tanta imprudenza? Qui bisogna fare approfondimenti, perché capita che i parenti dei pentiti, anche se aiutati dallo Stato, vogliano comunicare la loro presa di distanza dal familiare collaboratore. Spesso non si rinuncia alla propria identità appunto per evitare eventuali vendette o l’isolamento: nel 1995 la figlia di Carmine Schiavone, Giuseppina, inviò una lettera ai giornali in cui scrisse: “Mio padre è un megalomane infame”; più recentemente, nel 2017, Salvatore Ridosso, camorrista di Scafati e figlio di un collaboratore di giustizia, ha rifiutato la protezione dicendo: “Non voglio essere figlio di un collaboratore e mi astengo dalle dichiarazioni che ha fatto papà”.
A fronte di questo c’è la crisi del sistema di protezione. Poche risorse, personale sempre più ridotto, complicazioni burocratiche infinite per cambiare documenti, avere nuovi domicili, gestire il proprio difficile quotidiano non solo per i collaboratori di giustizia ma anche per i testimoni di giustizia (che niente hanno a che fare con le organizzazioni criminali, se non il fatto di averne denunciato i crimini). Il sistema di protezione è in enorme affanno e spesso è tutto caricato sulle spalle e la buona volontà dei funzionari.
Qualunque cronista locale, in contatto quotidiano con le forze dell’ordine, può arrivare a conoscere le informazioni più sensibili delle persone sottoposte a protezione e in questo modo esporle a ricatti e minacce. La politica non ne fa mai un tema, perché parlarne significherebbe svelare dei dettagli che l’opinione pubblica non conosce o conosce poco. I boss mafiosi, quando si pentono, ricevono uno stipendio e una capitalizzazione finale che è una specie di buonuscita che lo Stato dà al collaboratore quando il percorso è terminato, in modo da aiutarlo ad avviare una vita normale. Tutto questo è necessario perché senza collaboratori di giustizia la lotta alle mafie sarebbe impossibile. L’argomento del “ma come, centinaia di crimini e omicidi, e in più lo Stato li paga pure bene?”, non è accettabile.
Matteo Salvini sta portando avanti da mesi una messa in scena antimafiosa con proclami ridicoli: “Sconfiggeremo la mafia fra qualche mese, al massimo fra qualche anno”. Fesserie che da Mussolini a Berlusconi sono state continuamente ripetute, mentre la mafia continua a essere la forza economicamente più rilevante del Paese e più antica dello Stato unitario (e già, sono venute prima le mafie e poi l’Italia). Salvini sfrutta inchieste partite molti anni prima, non da sue battaglie politiche e non realizzate con il suo contributo; sale sulla ruspa per abbattere le ville dell’organizzazione dei Casamonica – per quanto violenta e criminale, marginale rispetto alle altre mafie – trasformando la demolizione in una sceneggiata propagandistica.
Con Salvini abbiamo a che fare con un ministro tutt’altro che impegnato nella lotta antimafia: proprio lui è leader di un partito in più momenti complice del potere ‘ndranghetista nel Nord Italia. Stiamo parlando di un segretario di partito che non ha avuto alcuna attenzione antimafia nello scegliere i suoi rappresentanti in Calabria e che con le sue scelte in materia di immigrazione sta perpetrando la diffusione del crimine. Demonizzare gli immigrati in fuga dai loro Paesi significa spingerli nelle mani delle organizzazioni, esattamente come accadde ai migranti italiani negli Usa o in Canada: più erano isolati e abbandonati, più venivano avvicinati dai clan.
Sono cent’anni che le mafie sanno che arresti e sequestri sono parte della grammatica del loro potere: finisce il boss, continua il sistema. Se la politica si accontenta di qualche scalpo, di qualche villa di nomade usuraio abbattuta, allora cerca solo una messa in scena per raccogliere qualche voto di chi ci casca. Se invece vuole davvero aggredire i meccanismi e i capitali mafiosi, allora deve dismettere le sceneggiate e iniziare a ragionare come Salvini non fa, come questo governo tutto non sta facendo”.
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