Giorgio Faletti e il timore prima della morte:
“Negli ultimi tempi prima di andarsene, diceva che aveva vissuto tante vite in una: quella di comico, attore, cantautore, scrittore, e che alla fine andava bene così”. È il racconto di Roberta Bellesini, moglie di Giorgio Faletti, morto a causa di un tumore il 4 luglio 2014 a soli 64 anni. “Il suo più grande timore era che dopo la sua morte si dimenticassero del suo lavoro. Per questo, in maniera ossessiva porto avanti i suoi progetti…”, ha aggiunto la donna in una commovente intervista rilasciata al Corriere della Sera.
Roberta Bellesini gli è stata accanto per 14 anni, vivendo così da protagonista come l’ex comico di Vito Catozzo è diventato un personaggio della cultura a tutto tondo e un giallista di clamoroso successo: «Io uccido» ha venduto in Italia cinque milioni di copie ed è tradotto in 32 lingue. Lei c’era il giorno in cui il libro uscì e a lui venne l’ ictus.
Come leggeste la coincidenza?
«Giorgio diceva che, essendo un comico, la sua vita poteva solo essere comica. Svegliandosi dal coma, sentiva i rumori delle macchine a cui era attaccato e riuscì a far ridere i dottori. Disse: ma dove mi avete ricoverato? A Las Vegas? Era un uomo allegro. La sera, voleva sempre amici a cena. Facevamo gare di battute. Grazie a lui, avevo affinato le mie doti».
Sta ridendo o piangendo?
«Tutte e due. Era bravissimo a trovare neologismi. Come “stritolizzare”, per quando ci stropicciavamo la pelle accarezzandoci. E ogni suono era divertente al di là del significato, per le sue buffe facce da adolescente. Lo coglievo, a volte, a mangiare qualcosa che non doveva e sgranava quei suoi occhioni azzurri che ti schiantavano. Io, davanti a quegli occhi, ero indifesa».
In ospedale, riuscì pure a farle la proposta di matrimonio.
«I medici avevano chiesto a me l’ autorizzazione a un trattamento sperimentale per salvarlo. Mi ero assunta il rischio. Si è ripreso e mi ha chiesto di sposarlo».
E lei?
«Gli dissi: fai così, richiedimelo quando sei fuori, ora sei sotto farmaci, non vorrei che mi accusassi di circonvenzione d’ incapace».
Lui diceva: ogni cosa che faccio è dedicata a Roberta.
«E io: quanto hai da farti perdonare per dire così?».
Suo marito ha scritto canzoni, ha vinto premi da attore. Era consapevole dei suoi talenti?
«Soffriva sempre di ansia da prestazione, temeva di non essere apprezzato. Non si rendeva conto di essere un genio. Ha scritto “Io uccido” in tre mesi. “Signor tenente” in mezz’ ora».
Cosa racconta di Faletti «La ricetta della mamma»?
«Quattro cose: la passione per la provincia, essendo cresciuto alla periferia di Asti, dove tutti si conoscevano; l’ ironia; la passione per il thriller, nata da bambino nella soffitta dove il nonno rigattiere accumulava scatoloni di noir americani che lui divorava».
La quarta?
«La passione per la buona cucina, attinta appunto dalla mam ma. Ai fornelli, era bravissimo. Con Jeffery Deaver, volevano scrivere un libro di ricette».
L’autore de «Il collezionista di ossa» l’ aveva definito «larger than life»: una leggenda…
«Giorgio lo lesse e quasi gli veniva un infarto. Non avrebbe mai immaginato di diventare amico del suo idolo».
Come visse i sei mesi di malattia?
«Con ottimismo. E l’ ultimo mese, diceva: vabbé, a un altro sarebbero servite tre vite per avere le mie soddisfazioni».
Che cosa temeva della morte?
«Che si dimenticassero del suo lavoro. Perciò, in maniera quasi ossessiva, porto avanti i suoi progetti, anche se tocco le sue cose e ho sempre dentro un dolore. A maggio, porterò in teatro a New York il suo “L’ ultimo giorno di sole”. Due anni fa, ho prodotto un suo album. Costringermi ad ascoltare la sua voce è ancora devastante».
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