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Lou Doillon: “Quasi a casa? Ero stordita, ho accettato per mia mamma. Non canto in francese per un motivo”

Lou Doillon: “Quasi a casa? Ero stordita, ho accettato per mia mamma. Non canto in francese per un motivo”. Lou Doillon su Quasi a casa, e non solo la modella, attrice e cantante francese, 42 anni, è la protagonista del film di Carolina Pavone. La figlia del regista Jacques Doillon e dell’attrice Jane Birkin, ne parla in una intervista a ‘Io Donna’. Ve ne proponiamo alcuni passaggi.

Il film comincia come Eva contro Eva e forse finisce un po’ come È nata una stella. C’è una fascinazione nel cinema per la mitologia, il mistero della vocazione artistica.
“Leggendo la sceneggiatura mi dicevo: speriamo che la relazione tra queste due donne non prenda la strada della detronizzazione di una nei confronti dell’altra, oppure che tra loro scatti la passione amorosa. Sarebbe un peccato. Ma Carolina Pavone non è caduta nella trappola. Restando sempre sufficientemente ambigua su chi, delle due, usi l’altra”.

Lou Doillon: “Quasi a casa? Ero stordita, ho accettato per mia mamma”

Lei è un’artista multitasking, nel film si serve di due dei suoi talenti. Non deve essere stato facile tornare davanti alla macchina da presa – qualcosa che forse aveva deciso di abbandonare, l’ultimo film risale al 2012 (era Un enfant de toi, diretta dal padre Jacques). Come entrano in gioco le emozioni quando recita, compone musica o disegna?
“È una questione complicata e affascinante. Non lavoro come attrice da molto tempo e – non ho difficoltà ad ammetterlo – è stato perché nessuno mi ha chiamata. Ma c’è anche un’altra questione. Il lavoro di attore implica mettersi completamente nelle mani di qualcun altro, è una scelta di totale generosità. Che non fa per me. Io posso essere anche molto docile, ma la sensazione di essere dominata mi fa sentire in pericolo. È dura abbandonarsi, ho molta ammirazione per chi lo sa fare. Io sono il capo di me stessa, dirigo io quello che faccio: questo fa per me.

Quando Carolina ha chiesto di incontrarmi per propormi il film ero stordita: mi sentivo perduta, stavo per perdere mia madre che poi se n’è andata proprio poco prima che il film cominciasse. E allora l’idea di “surrender”, come dicono gli inglesi, arrendersi all’impotenza che sentivo dentro di me, ha preso il sopravvento. Non era più possibile essere il boss del mio mondo se il mio mondo andava in pezzi. Perciò mi sono detta che mi dovevo affidare a questa giovane donna aveva la forza necessaria per guidarmi e al suo primo film, a un Paese e a una lingua che conosco poco. Perché forse restare in una situazione protetta per riprendermi, ricominciare a fare musica non era la cosa giusta da fare in quel momento. Meglio andarsi a perdere in un territorio sconosciuto”.

Lou Doillon: “Non canto in francese per un motivo”

Ha usato una parola inglese, “surrender” per esprimere un concetto importante. Lei compone e canta solo in inglese. È un modo per prendere le distanze dalla parte francofona della sua famiglia artistica, Charlotte e Serge Gainsbourg? O, come ha detto una volta, perché l’inglese è la lingua giusta «per quella cosa pagana e magica che sono le canzoni»?
“La musica è pagana, sì. È dell’ordine della stregoneria. Rappresenta il modo più strano, inspiegabile, per trasmettere qualcosa: se cantassi ora una canzone dei Beatles le resterebbe in testa per tutta la giornata come un incantesimo. Come la danza, cantare è qualcosa di primordiale per entrare in contatto con se stessi e con gli altri. Ma l’ingresso in questo mondo pagano prevede che si attraversi una zona grigia, ambigua e il problema del francese è che richiede più “artistry”, maestria, è una lingua che ha acquisito nobiltà attraverso la precisione, la complicazione, è una lingua molto netta. Ma non ci ho riflettuto, quando si è trattato di comporre le mie prime canzoni l’ho fatto in maniera naturale in inglese. E poi venendo da una famiglia molto conosciuta in Francia, se mi fossi messa a cantare in francese si sarebbe subito posta la questione di quali storie raccontare, visto che la mia vita e quella di chi mi sta intorno la conoscono tutti. C’è una specie di pudore che ho da quando sono ragazza.

Ma qualcosa potrebbe cambiare, nel mio prossimo album ci saranno anche canzoni in francese. Un sentimento ha bisogno di una lingua e non è detto che sia la stessa per tutti. Sono affascinata dalle persone che ne hanno a disposizione più di una perché possono usarle per descrivere mondi diversi. Una cantautrice che adoro e che purtroppo non c’è più, Lhasa de Sela, ha scritto un disco in spagnolo, uno in inglese, uno in francese e sono tutti e tre sublimi. Ma non è la stessa persona, ogni volta è una parte diversa di lei a cantare”.

Lou Doillon: “Le influenze mi hanno sempre fatto un po’ paura”

Il film l’ha fatta riflettere alle figure che avrebbero potuto essere i suoi padri o madri artistici? Forse Leonard Cohen, Neil Young o Patti Smith per cui lei ha illustrato l’edizione anniversario di Just Kids?
“Le influenze mi hanno sempre fatto un po’ paura, non ricordo di aver nemmeno mai avuto dei poster sulle pareti della mia cameretta. Ma ho sempre amato i traghettatori e Patti Smith è una grande traghettatrice, qualcuno che mette in relazione, che porta verso altro. La ascoltavo, la leggevo, ma la cosa più importante che Patti mi ha insegnato è stato tenere sempre un libro in tasca e farmi domande.

Nella musica la trasmissione è qualcosa di forte, come il bisogno di nutrirsi, quasi di vampirizzare le cose intorno. Se ami Bob Dylan prima o poi finirai a studiare il folk americano degli anni 30 e 40. Amo gli artisti che ti portano verso altri artisti. Da ragazza ero ossessionata dai Led Zeppelin e da Janis Joplin, perché la loro musica mi dava piacere, non credo di averne tratto ispirazione. Ma se c’è una cosa che accomuna chiunque faccia musica è la capacità di essere agili. Leonard Cohen poteva scrivere una canzone per una donna che pensa a un altro uomo: è magnifico”.

Lou Doillon: “Difficile opporsi all’idea che l’amore possa presentarsi in forme complicate”

Lei scrive canzoni romantiche e poetiche, l’amore sembra essere uno dei centri della sua vita. Ed è la figlia della donna che ha contribuito alla liberazione sessuale in Francia. L’ha influenzata nella sua visione delle relazioni?
“Decisamente. Difficile opporsi all’idea che l’amore possa presentarsi in forme complicate. Sono stata cresciuta da una donna che ha amato prima di mio padre, dopo mio padre e durante la relazione con mio padre. Una donna che amava la gente con cui lavorava e che amava il suo lavoro come se fosse una storia d’amore, e così il suo pubblico. Se fossi stata gelosa non sarei sopravvissuta. E io già molto presto mi sono resa conto che tutto funziona se c’è amore, siamo creature dell’amore e questo ci fa resistere, perché la consapevolezza che abbiamo della nostra finitezza è vivibile sono se c’è un’immensa dose d’amore”.

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